Riflettere su identità e stereotipi di genere nella scuola elementare.
Con questo intento all'interno dell'istituto “Galileo Galilei” di Pistoia è stato realizzato con i bambini di una quarta il documentario “Bomba Libera Tutti”. Per saperne di più abbiamo intervistato Pina Caporaso, regista del lungometraggio insieme a Daniele Lazzara.
di Claudia Bruno - 13 Marzo 2013
Il documentario 'Bomba Libera Tutti' è stato realizzato con l'obiettivo di riflettere su identità e stereotipi di genere all'interno di una scuola elementare
Ho avuto modo di conoscere Pina Caporaso a novembre a Roma, all'interno del Gruppo Self-help: riparliamone!, qualche mese dopo il nostro incontro è stata lei stessa a segnalarmi il lavoro che insieme ad alcuni suoi colleghi ha intrapreso nella scuola elementare di Pistoia, in cui attualmente insegna, e che ha portato poi alla realizzazione di un lungometraggio dedicato alla riflessione sugli stereotipi di genere in una quarta elementare. Insegnante dal 2003, laureata in sociologia, Pina è socia di Archivia (Biblioteca Archivi Centri Documentazione delle Donne presso la Casa Internazionale delle Donne di Roma) e attivista della Rete 13 febbraio di Pistoia. Nell'intervista che segue, ci racconta dell'esperienza che ha portato alla realizzazione del documentario Bomba Libera Tutti, a cui da poco è stato assegnato anche il Premio Immagini Amiche promosso dall'Udi (Unione Donne in Italia).
Come nasce l'idea di realizzare questo documentario e da quali esigenze specifiche?
Era da tempo che sentivo l'esigenza di raccontare l'intreccio che cerco di realizzare tra insegnamento ed educazione alle differenze di genere, come parte più ampia di una visione della scuola che aiuti la crescita globale delle persone e non si limiti a “fornire istruzione”. Due anni fa avevo proposto alle colleghe uno spazio di formazione in cui discutere di come la scuola trasmetta stereotipi di genere; in realtà, è stata un'occasione per un primo scambio sulla consapevolezza della nostra identità di genere in una scuola fortemente femminilizzata, e delle ricadute che questo può avere nella relazione educativa. L'anno successivo, mentre i bambini e le bambine crescevano e aprivano di continuo riflessioni cariche di significato, ho pensato che non potevo tenere per me le loro idee. Avevo bisogno di condividere anche la ricchezza di questa classe, che è davvero notevole.
Cos'ha significato riflettere su identità e stereotipi di genere all'interno di una scuola elementare?
Nel documentario la scuola fa da “sfondo”, in realtà riflettiamo sul vissuto generale che i bambini e le bambine hanno. Ciò che vedono – e assorbono – in famiglia, ciò che viene proposto dalla televisione, ciò che ha contribuito a dar loro una consapevolezza più o meno stereotipata della propria identità di genere: questi aspetti attraversano ogni attività che abbiamo proposto. Spesso si pensa che nella scuola dell'infanzia o in quella elementare non si possano toccare certi temi, per una presunta immaturità dei più piccoli.
Invece, per noi insegnanti, questo lavoro ha significato capire come tutto ciò che ci circonda sia orientato a formare una precisa identità fatta di stereotipi, cioè di visioni semplificate della realtà, che costringono le personalità dei bambini e delle bambine entro certi ruoli nei quali loro non si sentono a proprio agio.
Qual è stato l'atteggiamento dei bambini e delle bambine e la loro disposizione rispetto a un discorso di questo tipo? Ci sono state delle risposte particolarmente significative?
Questo discorso, che giustamente non può essere definito “argomento” o “tema”, ha attraversato molto la mia relazione con loro, da subito. Non è la prima volta che ci confrontiamo sull'identità e sulle differenze, anche di genere, per esempio nello svolgersi quotidiano delle nostre giornate, scandite anche da ruoli che abbiamo cercato di mescolare il più possibile.
In classe tutti e tutte sanno che è loro compito pulire, sistemare spazi che sono stati sopraffatti dal caos (!), curare e consolare un compagno o una compagna che si sente male... è sempre molto interessante vedere piccoli uomini che si relazionano fisicamente con altri, per esempio praticando un benefico massaggio alla tempia in uno di quei mal di testa improvvisi che talvolta arrivano durante la giornata; oppure, vedere alcune bambine che preparano ottimi lavori al computer per tutta la classe, dimostrando, senza saperlo, che le ragazze hanno tranquillamente superato il digital divide. Per me è stata molto significativa l'inquietante domanda di Matilde che apre il documentario: inizialmente vissuta come preoccupazione per un immaginario solo maschile, l'ho poi trasformata nel segnale di qualcosa che sta cambiando. In passato la bimba non avrebbe forse nemmeno notato l'assenza di figure femminili nell'arte!
Questo progetto ha comportato degli spostamenti a livello di didattica e programmi all'interno della vostra scuola?
Questo è un punto delicato. Non tutta la scuola lavora in questa direzione ovviamente, anche se ci sono maestre, come quelle intervistate, che hanno uno sguardo molto articolato e propongono esplicitamente questa riflessione. Il punto, però, è un altro. Questo discorso non può essere trattato come un argomento del programma. C'è invece bisogno che viva nella pratica quotidiana.
I bambini e le bambine imparano più d'ogni altra cosa dall'esempio, dalla logica dei fatti coerenti con le parole. Se io parlo di condivisione e poi assegno compiti di cura solo alle bambine (la tentazione più immediata che possa avere una maestra, perché le bambine sono educate ad essere sempre disponibili), loro non cambieranno di una virgola questo schema, perché le pratiche, a quella età, sono più forti delle parole. Poi è ovvio che ha molto valore introdurre questo sguardo nei programmi e nelle indicazioni curricolari ma, se è un vissuto autenticamente esperito, è già parte del curricolo.
Con il documentario avete anche vinto un premio importante, il Premio Immagini Amiche promosso dall'Udi e dal Parlamento Europeo, com'è andata, raccontaci.
Si tratta di un Premio che valorizza aziende, programmi televisivi, siti web, Comuni e scuole che lavorano per contrastare immagini stereotipate e lesive della dignità femminile. Per la scuola è stata istituita una menzione speciale della quale siamo stati insigniti grazie al documentario “Bomba Libera Tutti”, proprio perché questo prodotto mostra un'attenzione da parte delle insegnanti volta al cambiamento delle visioni più ricorrenti del maschile e del femminile.
È stato emozionante e anche stranissimo per tutti e tutte noi essere lì, nel cuore del mondo pubblicitario, televisivo e dell'informazione mainstreaming; personalmente sono stata felicissima che ci fosse anche Daniele Lazzara, il co-regista del documentario, a ritirare il premio, perché senza la sua sapienza tecnica e il suo sguardo, coinvolto e discreto al tempo stesso, non avremmo mai potuto realizzare questo lavoro.
Come dovrebbe cambiare la scuola secondo te?
Dovrebbe innanzitutto tornare al centro dell'interesse sociale e politico, degli investimenti e della formazione. La scuola pubblica in Italia soffre per una mancanza cronica di soldi e questo, nel concreto, significa che le insegnanti non possono lavorare in maniera qualitativamente adeguata, significa non avere spazi, significa non avere l'organizzazione che ci serve. I tagli alle compresenze, per esempio, hanno messo in ginocchio la scuola elementare perché ci costringono ad una didattica prevalentemente frontale, senza poter organizzarci in piccoli gruppi, e allora succede che i più spigliati intervengono, le più timide tacciono, tanto per rimanere in tema.
Precarietà, nella scuola, significa che i bambini e le bambine perdono le loro insegnanti, non hanno la possibilità di saldare, anno dopo anno, la relazione educativa, che è l'unico aspetto insostituibile del nostro lavoro. E perciò mi fanno sorridere amaramente alcuni surrogati che vengono proposti come rimedi: e-book, wireless e formazione tramite Internet... pensiamo davvero che possano sostituirci? Porre domande, insegnare a contestualizzare, discriminare l'origine e quindi la natura di un contenuto: come implementiamo questo approccio critico alla realtà se si continua a produrre slogan come la scuola digitale? Il quadro politico di queste settimane ci fa pensare che la questione sarà ancora a lungo delegata esclusivamente all'etica delle insegnanti.
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