http://www.iene.mediaset.it/puntate/2014/10/08/nobile-una-famiglia-arcobaleno_8804.shtml
VICENZA Cristina ha tre mesi, di notte non piange nè si sveglia quasi mai. Ma se succede, a prenderla in braccio c’è papà Paolo. E se ancora non dovesse calmarsi, niente paura, per rassicurarla è pronto l’altro papà: Massimo. Cristina è figlia di una coppia veneta omosessuale. «E’ bravissima, dorme anche nove ore filate», sorride il primo papà. La piccola vive con i due padri — vicentini — in un Comune di 10 mila abitanti. «Sia i vicini di casa che i colleghi di lavoro sanno, e la situazione è tranquillamente accettata — spiega Paolo — la gente comune è molto più avanti di certa nostra politica». Impiegato, 36 anni, insieme al compagno Massimo, infermiere 50enne, l’uomo ha avuto la figlia negli Stati Uniti «tramite la Gpa, cioè la gravidanza per altri». Entrambi parteciperanno, «a patto che Cristina non sia raffreddata, la stagione è quella», alla «Festa delle famiglie venete» organizzata da Arcigay, Famiglie Arcobaleno e altre associazioni a Vicenza il 16 novembre. L’iniziativa, un pomeriggio di musica, spettacoli e testimonianze, è la risposta del movimento «Lgbt» (lesbiche, gay e transessuali) a una recente mozione voluta dalla Lega Nord in consiglio regionale a favore della famiglia tradizionale.
Paolo racconta la storia della coppia. «Siamo noiosamente monogami da otto anni — sorride — ma non sposati. Aspettiamo che il matrimonio tra partner dello stesso sesso diventi possibile anche in Italia. Da sempre in noi c’era la volontà di avere un figlio». Attraverso informazioni fornite dalle «Famiglie Arcobaleno», i due aspiranti genitori hanno puntato sulla California. «Lì sono possibili non solo il matrimonio omosessuale ma anche la gravidanza per i single o per altre coppie e le adozioni per i single o per altre coppie. E tutto il processo è trasparente. Tramite una clinica per la ferti- lità siamo entrati in contatto con le altre due parti da coinvolgere, due donne». Una per gli ovuli, l’altra per portare a termine la gravidanza: «L’abbiamo conosciuta e c’è stata subito empatia, è una ragazza che ha già tre figli ed è sposata, una persona normale — precisa Paolo —. Lì le gravidanze per altri sono pratica diffusa». Per la donna che lo fa ci sono una serie di moduli di «prenascita » da firmare, che la escludono come madre, e un rimborso spese che tiene conto di tutti i rischi. «Ci sentivamo di continuo con lei e la sua famiglia.
Al telefono, i suoi figli ci dicevano che davano i bacinialla cuginetta italiana nella pancia della mamma». Cuginetta venuta alla luce i primi di agosto, prematura di qualche giorno: «Ci siamo precipitati negli Stati Uniti, siamo arrivati che era nata da qualche ora. E nel certificato di nascita è stato riconosciuto che i genitori siamo io e il mio compagno, senza alcun problema — continua Paolo —. Anzi, tutti ci chiedevano increduli perché non l’avessimo fatto in Italia, come mai qui non era ancora possibile ». Invece, nell’atto di nascita italiano viene riconosciuto solo il genitore naturale, Massimo. I due papà e la figlioletta sono tornati a Vicenza a metà settembre. «Con la famiglia americana manteniamo i rapporti tutt’ora: a Cristina spiegheremo tutto, quando sarà grande. Intanto frequenterà l’asilo e il normale percorso scolastico — conclude Paolo — non ci sentiamo diversi dalle altre famiglie».
01 novembre 2014
Non è male, sposarsi. Col tempo ho imparato a capire il punto di vista di Elizabeth Taylor e Enrico VIII, anche se risposare sempre la stessa persona, senza mai divorziare o ucciderla, è certo un po’ banale.
La prima volta che ho sposato Franco è stato sedici anni fa in una villetta al mare imbiancata a calce dalle parti di Torvaianica. Eravamo nel mezzo del cammin di nostra vita, e ormai sembrava abbastanza chiaro che la seconda metà, inferno o paradiso, l’avremmo attraversata insieme. E allora occorreva festeggiare. Per il gusto di esagerare abbiamo chiamato ottanta invitati e aperto una lista di nozze in un negozio del centro. La signora che ci mostrava gli oggetti non sapeva come chiamarci. “Mi sembra che questo portavivande piaccia molto a suo… a suo…” “A Franco”, l’abbiamo aiutata e così siamo diventati amici. Poi abbiamo passato la serata a scriverci le promesse di matrimonio. La cerimonia volevamo inventarcela da noi. Piero ha suggerito un rituale sardo: il lancio di grano e petali di rose, il piatto spezzato. C’era spazio anche per quello. E per la lettera alla ministra delle pari opportunità, e per le teglie di pasta di Antonio, e per l’amica che ci regalò un articolo di prima pagina tutto per noi, e per la chitarra di Lorenzo, e per la bomboniera con una poesia di George Oppen. “A tentoni / ci siamo fatti strada insieme / giù in pendio nella luce / incredibile, lucente...”
Al momento del sì le lacrime si sprecavano – piangevo anch’io, per i tanti che erano venuti e per i pochi che non avevano voluto venire. Ma la seconda volta che ho sposato Franco ha pianto solo la celebrante, che era la nostra amica Paula. Erano passati dieci anni. Ci stringevamo, una ventina di amici e parenti, nel cuore di un roseto municipale della California. Il matrimonio per tutti era possibile da tre mesi appena. Lo sarebbe rimasto solo per altri due mesi, prima dei cinque lunghi anni di proibizione - il cupo inverno omofobico voluto da un gruppo di cittadini che si pensavano Sentinelle del bene, dell’ordine e della morale. Paula però non piangeva per questo. Si era commossa perché molti ricordi e sentimenti della sua vita, prima in Italia, poi in America, sembravano convergere nella spirale di cespugli profumati. Un matrimonio è lo snodo di tante storie, non solo quella degli sposi; per questo impedirlo è togliere qualcosa non solo agli sposi, ma a tutti.
La terza volta che ho sposato Franco era perché per la prima volta potevo farlo legalmente nella mia città. Peccato che non fosse proprio un matrimonio ma solo l’iscrizione al primo registro delle unioni civili, quello della X circoscrizione. Gesto simbolico, nessun diritto. L’anno dopo ci siamo sposati per la quarta volta nell’XI circoscrizione, la nostra. Ancora più simbolico, diritti zero. Queste erano cerimonie di gruppo, con coppie lesbiche, etero, e gay; foto in posa, discorsi ufficiali, giornalisti. Ci andavamo pensando di compiere un doveroso gesto politico. Ma al momento della firma un batticuore ci scappava sempre. Così una cosa l’ho imparata: i simboli devono essere una cosa pericolosa, che smuove emozioni, che per esempio convince un adolescente gay a non uccidersi. Sarà per questo che il Ministro dell’Interno fa la Sentinella anche contro i matrimoni simbolici come quelli trascritti in tante città. Sarà per questo che vogliono toglierci anche i simboli.
Oggi per fortuna tanti altri municipi romani offrono le unioni civili, ma noi non ci siamo sposati più. Ora aspettiamo il matrimonio vero. Sarebbe bello farlo prima di morire e prima che muoiano altri ragazzi. Magari non verserei una lacrima. Magari non ne avrei più.
Non è male, sposarsi. Col tempo ho imparato a capire il punto di vista di Elizabeth Taylor e Enrico VIII, anche se risposare sempre la stessa persona, senza mai divorziare o ucciderla, è certo un po’ banale.
La prima volta che ho sposato Franco è stato sedici anni fa in una villetta al mare imbiancata a calce dalle parti di Torvaianica. Eravamo nel mezzo del cammin di nostra vita, e ormai sembrava abbastanza chiaro che la seconda metà, inferno o paradiso, l’avremmo attraversata insieme. E allora occorreva festeggiare. Per il gusto di esagerare abbiamo chiamato ottanta invitati e aperto una lista di nozze in un negozio del centro. La signora che ci mostrava gli oggetti non sapeva come chiamarci. “Mi sembra che questo portavivande piaccia molto a suo… a suo…” “A Franco”, l’abbiamo aiutata e così siamo diventati amici. Poi abbiamo passato la serata a scriverci le promesse di matrimonio. La cerimonia volevamo inventarcela da noi. Piero ha suggerito un rituale sardo: il lancio di grano e petali di rose, il piatto spezzato. C’era spazio anche per quello. E per la lettera alla ministra delle pari opportunità, e per le teglie di pasta di Antonio, e per l’amica che ci regalò un articolo di prima pagina tutto per noi, e per la chitarra di Lorenzo, e per la bomboniera con una poesia di George Oppen. “A tentoni / ci siamo fatti strada insieme / giù in pendio nella luce / incredibile, lucente...”
Al momento del sì le lacrime si sprecavano – piangevo anch’io, per i tanti che erano venuti e per i pochi che non avevano voluto venire. Ma la seconda volta che ho sposato Franco ha pianto solo la celebrante, che era la nostra amica Paula. Erano passati dieci anni. Ci stringevamo, una ventina di amici e parenti, nel cuore di un roseto municipale della California. Il matrimonio per tutti era possibile da tre mesi appena. Lo sarebbe rimasto solo per altri due mesi, prima dei cinque lunghi anni di proibizione - il cupo inverno omofobico voluto da un gruppo di cittadini che si pensavano Sentinelle del bene, dell’ordine e della morale. Paula però non piangeva per questo. Si era commossa perché molti ricordi e sentimenti della sua vita, prima in Italia, poi in America, sembravano convergere nella spirale di cespugli profumati. Un matrimonio è lo snodo di tante storie, non solo quella degli sposi; per questo impedirlo è togliere qualcosa non solo agli sposi, ma a tutti.
La terza volta che ho sposato Franco era perché per la prima volta potevo farlo legalmente nella mia città. Peccato che non fosse proprio un matrimonio ma solo l’iscrizione al primo registro delle unioni civili, quello della X circoscrizione. Gesto simbolico, nessun diritto. L’anno dopo ci siamo sposati per la quarta volta nell’XI circoscrizione, la nostra. Ancora più simbolico, diritti zero. Queste erano cerimonie di gruppo, con coppie lesbiche, etero, e gay; foto in posa, discorsi ufficiali, giornalisti. Ci andavamo pensando di compiere un doveroso gesto politico. Ma al momento della firma un batticuore ci scappava sempre. Così una cosa l’ho imparata: i simboli devono essere una cosa pericolosa, che smuove emozioni, che per esempio convince un adolescente gay a non uccidersi. Sarà per questo che il Ministro dell’Interno fa la Sentinella anche contro i matrimoni simbolici come quelli trascritti in tante città. Sarà per questo che vogliono toglierci anche i simboli.
Oggi per fortuna tanti altri municipi romani offrono le unioni civili, ma noi non ci siamo sposati più. Ora aspettiamo il matrimonio vero. Sarebbe bello farlo prima di morire e prima che muoiano altri ragazzi. Magari non verserei una lacrima. Magari non ne avrei più.
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