di Elena Tebano
«L’ho detto anche a Claudio: non diventerò mai presidente, non troverò la cura del cancro, ma questo era qualcosa che potevo fare per cambiare la vita di qualcuno. Non avevo idea di quanto avrebbe significato anche per me».Tara Bartholomew è una 44enne dell’Ohio, piccola imprenditrice e madre di famiglia della classe media americana. Il «qualcosa» di straordinario a cui fa riferimento è aiutare Claudio Rossi Marcelli, scrittore egiornalista italiano, e il marito Manlio ad avere un bambino. Tre, per la precisione: Clelia e Maddalena, due gemelle di 8 anni, e Bartolomeo, di 4, concepiti grazie all’ovulo di una donatrice, Jamie Kramer, e portati in grembo da Tara. Delle donne che decidono di intraprendere una gestazione per altri si parla spesso come di «uteri in affitto» e si dice – lo fa anche l’appello di Snoq Libere contro la maternità surrogata – che sono «oggetti a disposizione» di altri, povere, «sfruttate», «poco informate o del tutto disinformate». Tara, che vive negli Stati Uniti dove la maternità surrogata viene praticata da circa 30 anni, con contratti chiari e precisi (e non in India, dove la condizione delle donne è tutt’altra) racconta una storia diversa.
«Ho deciso di diventare una madre surrogata dopo che mia sorella ha perso un bimbo un mese dopo la nascita di mia figlia. Mi aveva fatto sentire impotente — dice —. Mia sorella è gay e avevo visto le pressioni che aveva dovuto affrontare prima di decidere di fare un figlio, a cominciare dal timore dei pregiudizi. All’epoca lavoravo per un ginecologo e assistevo ogni giorno alle sofferenze delle coppie infertili. In più una delle nostre pazienti era una madre surrogata e aveva amato l’esperienza: mi è sembrato naturale farlo». Si è iscritta a un’agenzia e ha incontrato Claudio e Manlio che dall’altra parte dell’oceano stavano pensando di ricorrere alla gestazione per altri. «Prima di deciderci però, abbiamo voluto incontrarla, perché all’inizio anche noi avevamo delle perplessità sulla surrogata — ricorda Claudio —. Volevamo sapere perché si era offerta: “Lo sai che in Italia ti considererebbero pazza?” le ho detto. Ci siamo piaciuti e abbiamo subito avuto la sensazione che tra noi fosse successo qualcosa di speciale».
Negli Usa la donna che porta avanti la gravidanza e la coppia per cui lo fa devono scegliersi a vicenda. Tara non ha avuto dubbi: «Mi sono sembrati due persone che si amavano ed erano pronte ad impegnarsi al massimo per mettere su famiglia». Ha contato anche il fatto di ricevere un compenso: «Circa ventimila dollari, che ho messo nel fondo per pagare l’università ai miei figli» (il costo per le coppie è di circa 100 mila dollari, che servono per coprire le spese mediche e pagare le agenzie di intermediazione). Così le è stato impiantato un ovulo fecondato con il seme di Claudio ma fornito da una donatrice, come in un’eterologa (negli Usa lo prevede la prassi perché il bambino che nasce non sia figlio biologico della partoriente). A dare l’ovulo è stata Jamie Kramer, 33 anni, del Michigan. «Ci ho pensato a lungo prima di donare: avevo poco più di vent’anni e facevo l’attrice a New York, ha pesato la motivazione economica — racconta —. Ma è stato quando una mia zia ha avuto un aborto spontaneo che ho visto la bellezza di aiutare un’altra famiglia a concepire un bimbo». All’inizio Claudio e Manlio non la conoscevano: le hanno scritto dopo la nascita di quelle che, a sorpresa, si sono rivelate due gemelle. Tara le ha partorite d’urgenza, chiamandoli alle prime doglie. Sono saliti su un aereo e rimasti in Ohio per qualche settimana dopo il parto. Poi sono ripartiti per l’Italia con le bambine: «Clelia e Maddalena sanno da subito come sono nate: abbiamo spiegato loro che non avendo la pancia abbiamo chiesto aiuto a Tara».
«Siamo restati in contatto e ci vediamo ogni volta che possiamo — dice lei —. Sarebbe stato molto triste se fossero spariti dopo la nascita». È un punto fondamentale: Claudio, Manlio, Tara e Jamie sono riusciti a stabilire un rapporto tra loro e le loro famiglie che andava oltre la transazione economica. Un posto degli affetti in cui accogliere questo modo così particolare di fare dei bambini. Anche per questo per Claudio e Manlio è stato naturale chiedere a Tara di aiutarli ad avere il terzo figlio: «Se ci avesse detto di no, avremmo rinunciato». Stavolta il seme è stato fornito da Manlio, mentre la donatrice è stata ancora una volta Jamie. Così è nato Bartolomeo (il nome è un omaggio al cognome di Tara). «Volevamo incastrarci il più possibile, perché purtroppo legalmente il padre delle gemelle sono solo io, per evitare problemi con la trascrizione all’anagrafe italiana − spiega Claudio – mentre quello di Bartolomeo è solo Manlio. Ovviamente sono tutti e tre fratelli e tutti e tre figli di entrambi, anche se lo Stato italiano li riconosce solo a metà».
Quattro anni fa alla nascita di Bartolomeo erano presenti anche i due papà, mentre Jamie è arrivata poche ore dopo con il suo compagno e ha incontrato per la prima volta i bambini. «All’inizio c’è stato un momento di imbarazzo, allora ho preso Bartolomeo e l’ho messo in braccio al compagno di Jamie: “Sappi che se avrete un figlio sarà più o meno così”, gli ho detto» ricorda Claudio con un sorriso. Da allora sono una presenza costante nella vita gli uni delle altre. Nel tempo si è aggiunto anche un altro legame inaspettato: «Jamie aveva fatto da donatrice anche per un’altra coppia, due papà australiani. Abbiamo scritto anche a loro e ci siamo scambiati le foto dei bambini. Lo scorso Natale ci sono venuti a trovare: i nostri figli sanno che sono biologicamente fratelli».
«Tutto questo è stato un dono, non mi sono pentita neanche per un momento», dice Jamie, che oggi ha una figlia sua. «Siamo una famiglia — le fa eco Tara—. I nostri figli si vogliono bene e i miei si sentono una sorta di fratelli maggiori». Anche Claudio è d’accordo: «Siamo entrati una famiglia allargata: ci mancano ancora le parole per dirlo, ma facciamo tutti parte della stessa storia».
http://27esimaora.corriere.it/articolo/ho-messo-al-mondo-i-loro-tre-figli-e-ora-ci-sentiamo-una-famiglia/
I miei figli sono la gioia della mia vita
I miei figli sono la gioia della mia vita
Perché non aiutare altri ad averla?
«Serena, ma tu hai figli?».
Arriva sempre, la domanda che tenta di farmi chiudere la bocca, quando discuto con qualcuno di maternità, della libertà delle donne di scegliere di non avere figli, della legittimità di qualcuna di non sentirne affatto il bisogno o di qualcun’altra di voler esserlo a tutti i costi quindi di ricorrere alla scienza e alla tecnologia, spesso all’estero, pur di stringere fra le braccia un bambino.
Arriva sempre, la domanda che tenta di farmi chiudere la bocca, quando discuto con qualcuno di maternità, della libertà delle donne di scegliere di non avere figli, della legittimità di qualcuna di non sentirne affatto il bisogno o di qualcun’altra di voler esserlo a tutti i costi quindi di ricorrere alla scienza e alla tecnologia, spesso all’estero, pur di stringere fra le braccia un bambino.
Quando non sanno più come controbattere mi chiedono se ho figli. Sì, ho un figlio di sei anni. Che ho anche partorito. Quindi so pure cosa significa (per me) portarlo in grembo e crescerlo.
Ma mi viene da ridere. Sempre. Infatti rispondo: «Credo che la tua domanda sia errata. Il quesito giusto da porci non è se io, donna, abbia figli. Ma se mi ricordo della me bambina, di quando ero io, a mia volta, figlia».
Perché in questi giorni in cui si sta discutendo in maniera molto accesa sulla maternità surrogata si sta perdendo un po’ il punto di vista della questione. Cosa serve a un bambino per crescere? Di cosa ha realmente bisogno? Chi è madre? Quella che ti mette al mondo o la persona che ti fa diventare grande?
Sono anni che intervisto madri. Adottive, di figli malati, in affido, madri alle quali è stato strappato un figlio, madri in carcere, madri single, madri abbandonate, madri fuggite, madri violente, donne che sono ricorse all’eterologa, altre che hanno cresciuto figli a fianco di uomini-mostri. E hanno tutte una cosa in comune: si sentono madri perché si sono svegliate di notte, perché hanno curato la febbre, perché si sono emozionate il primo giorno di scuola, perché hanno sgridato, messo in castigo, si son preoccupate e pianto per le sofferenze. Quindi perché hanno cresciuto e amato i loro figli.
Ho incontrato un caleidoscopio di esperienze, le une molto diverse dalle altre, e ho sempre tenuto fisso un obiettivo: raccontare la storia, i sentimenti, i perché di chi mi trovavo di fronte. Non ho mai generalizzato, e mai vorrò farlo, i macro argomenti che riguardano le donne.
In questi giorni in cui si discute di maternità surrogata mi sorprende una cosa: è quasi inesistente la voce di queste madri, soprattutto di chi fra loro “presta”, diciamo così, il proprio utero per coppie eterosessuali. Ho letto molti nomi importanti fra chi si schiera contro e sono convinta che nessuno di loro abbia mai ascoltato di persona la voce di queste donne che decidono di partorire figli per altri. Parlo di americane, inglesi, greche, russe, ucraine, dando per scontato che tutti, senza se e senza ma,condanniamo là dove esiste schiavitù (e non solo quella dell’utero in affitto di qualche indiana o nepalese ma anche per esempio quella degli schiavi della raccolta dei pomodori nel sud Italia o dei bambini sfruttati nelle miniere nei paesi poveri).
Io ho iniziato a raccogliere testimonianze di madri surrogate lo scorso anno. Perché da sempre mi interessa l’argomento e perché ne sto facendo un libro in uscita fra pochi mesi. A Kiev ho incontrato Natasha, madre di un figlio di nove anni e portatrice per tre volte di figli per altri. Non ho visto schiavitù, non ho visto costrizione, non ho visto tristezza. Anzi. Tanta consapevolezza, tanta serenità e tanta voglia di donare a chi lo desiderava da anni un figlio che, naturalmente, non era mai arrivato. Stessa consapevolezza e stessa voglia di partorire un figlio per altri anche nelle statunitensi. Esistono numerosi blog e pagine sui social network in cui si scambiano consigli, si sostengono, si incitano a vicenda e condividono esperienze che, a detta loro, sono indimenticabili. E quando chiedi se c’è qualcuna che ti vuol raccontare la sua storia e il perché lo fa, arrivano decine di risposte via mail: «I would love to tell u my story». Scopri che sono tutte già madri, di regola di due o tre figli loro, contente di poter aiutare coppie con difficoltà ad allargare famiglia perché «i miei figli sono la gioia più grande della mia vita. Perché non dovrei aiutare qualcuno ad averla, questa gioia?». Poi ci sono le sorelle che si aiutano a vicenda, o le madri che si prestano per figlie malate. O le amiche, che si mettono a disposizione.
Delle testimonianze raccolte, solo un venti per cento riguarda coppie omosessuali. Gran parte delle persone che ricorrono alla surrogata sonocoppie etero in cui la donna non può portare a termine la gravidanza. Donne nate senza utero, donne alle quali è stato tolto per una grave malattia, donne uscite dalla chemioterapia, donne che hanno avuto parti drammatici in cui, oltre ad aver perso il figlio alla nascita, hanno subito l’asportazione dell’utero, donne sieropositive, donne con malformazioni genitali. Io per onestà intellettuale ho sempre avuto la necessità di capire un argomento, una questione, senza giudicare. Per questo più che sedermi nei salotti a discutere su chi abbia torto o ragione e ascoltare le posizioni teoriche delle diverse parti, ho preferito andare direttamente a parlare con le interessate.
Sono sinceramente stupita su come si stia compiendo un tentativo di ragionamento che, secondo me, sta facendo solo danni al concetto di maternità e di libertà di scelta. Elisabeth Badinter diceva che essere madri non è innato e non c’è nulla di naturale nell’esserlo. La nozione di amore materno è evolutiva perché, dice la filosofa, «è soltanto un sentimento. E come tutti i sentimenti è incerto, fragile e imperfetto. Può esistere o non esistere, esserci o sparire. Non va dato per scontato». Ancora oggi invece paghiamo il binomio della donna-madre. Se una donna non hai figli, non è completa e non può capire cosa voglia dire veramente amare. Se dice che è stata una libera scelta, mente: «avrà avuto sicuramente qualche problema, figurati se una sceglie di non aver figli». E di cosa sto parlando lo sappiamo bene tutte. A sedici anni tutti ti chiedono quando ti trovi il fidanzato. Quando hai il fidanzato, iniziano le domande su quando ti sposi. Quando sei sposata, quand’è che fai un figlio… e se un figlio non arriva, spesso è un dramma. Molto spesso, non per la coppia, ma per chi le sta attorno. E quindi un figlio deve arrivare, anche a tutti i costi.
È ancora molto diffuso il mito della maternità come unica realizzazione dell’essere donna e del rapporto speciale tra madre e figlio, fin dalla pancia. Certo, per qualcuna sarà stato sicuramente così. Ma la presunzione che lo sia per tutte è inaccettabile. Credo sarebbe molto più utile tornare a discutere perché la donna valga indipendentemente dall’essere o non essere madre, dall’avere o non avere figli, dall’utilizzare o meno il proprio utero.
Altrimenti, anche in questa battaglia, credo che a rimetterci sarà ancora una volta la nostra libertà.
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