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Starring Cate Blanchett, Rooney Mara, Sarah Paulson & Kyle Chandler. Directed by Todd Haynes. Based on the Patricia Highsmith novel, 'The Price of Salt'.
Swoon & be flung out of space.
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FEATURED POSTS
cinema horror e velleità culturali
IL PREZZO DEL SALE
Usciamo fuori tema, ma usciamoci sul serio, forse per la prima volta, cercando di dire qualcosa che abbia un briciolo di senso su un film che, con l’horror e il cinema di genere non ha nulla a che spartire. Se il titolo del post vi sembra strano o poco attinente, è solo perché non sapete che il romanzo da cui Carol è stato tratto, in origine, si chiamava The Price of Salt. Patricia Highsmith, destinata a diventare famosa come autrice di thriller psicologici, ne scrisse una prima bozza quando non aveva neanche vent’anni e lavorava come impiegata stagionale in un grande magazzino. Un giorno, entrò in negozio una donna bionda: “Perhaps I noticed her because she was alone, or because a mink coat was a rarity, and because she was blondish and seemed to give off light. With the same thoughtful air, she purchased a doll, one of two or three I had shown her, and I wrote her name and address on the receipt, because the doll was to be delivered to an adjacent state. It was a routine transaction, the woman paid and departed. But I felt odd and swimmy in the head, near to fainting, yet at the same time uplifted, as if I had seen a vision. As usual, I went home after work to my apartment, where I lived alone. That evening I wrote out an idea, a plot, a story about the blondish and elegant woman in the fur coat. I wrote some eight pages in longhand in my then-current notebook or cahier.”
Se avete visto il film in sala in questi giorni, non avrete fatto fatica a riconoscere la scena iniziale di Carol.
Ora, la storia editoriale del romanzo è interessante. Venne pubblicato per la prima volta nel ’52, ma non dall’abituale editore della Highsmith, che firmò anche la storia con lo pseudonimo di Claire Morgan. Ebbe una seconda edizione, l’anno successivo, un tascabile pulp da 25 centesimi. Ed era un pulp molto particolare, quello a cui apparteneva: si trattava di lesbian pulp (piccola curiosità: la Highsmith ebbe una storia con una delle più famose scrittrici di lesbian pulp, Marijane Meaker), un genere che vendeva bene e, spesso, rappresentava l’unica letteratura in cui le donne omosessuali si potessero, in parte, rispecchiare. Ebbe la sua importanza nel definire una certa identità di genere, insomma, ma è proprio il termine “in parte” che interessa a noi. The Price of Salt venne stampato in quella categoria di narrativa pulp, ma non le apparteneva del tutto.
Per quale motivo?
Il modo in cui i personaggi di Carol e Therese venivano descritti e, soprattutto, il finale per l’epoca rivoluzionario.
Se avete visto il film in sala in questi giorni, non avrete fatto fatica a riconoscere la scena iniziale di Carol.
Ora, la storia editoriale del romanzo è interessante. Venne pubblicato per la prima volta nel ’52, ma non dall’abituale editore della Highsmith, che firmò anche la storia con lo pseudonimo di Claire Morgan. Ebbe una seconda edizione, l’anno successivo, un tascabile pulp da 25 centesimi. Ed era un pulp molto particolare, quello a cui apparteneva: si trattava di lesbian pulp (piccola curiosità: la Highsmith ebbe una storia con una delle più famose scrittrici di lesbian pulp, Marijane Meaker), un genere che vendeva bene e, spesso, rappresentava l’unica letteratura in cui le donne omosessuali si potessero, in parte, rispecchiare. Ebbe la sua importanza nel definire una certa identità di genere, insomma, ma è proprio il termine “in parte” che interessa a noi. The Price of Salt venne stampato in quella categoria di narrativa pulp, ma non le apparteneva del tutto.
Per quale motivo?
Il modo in cui i personaggi di Carol e Therese venivano descritti e, soprattutto, il finale per l’epoca rivoluzionario.
Passa più di mezzo secolo e Todd Haynes, regista poliedrico, dotato di enorme talento e di un gusto per le immagini fuori del comune, decide di adattare il romanzo della Highsmith. E qui bisogna fare un piccolo passo indietro e tornare negli anni ’50, da un signore chiamato Douglas Sirk e autore di alcuni tra i più imponenti melodrammi hollywoodiani del periodo. Hayes omaggia direttamente Sirk in Lontano dal Paradiso, del 2002, riprendendo dal regista la sfida costante alle convenzioni sociali, mascherata da un stile compassato.
Con Carol, l’operazione è ancora più complessa e raffinata. Perché Carol è un melodramma spogliato dalla passionalità tipica del genere. Un melodramma raggelato, sempre trattenuto, che racconta una passione enorme, ma non la lascia sfogare (quasi) mai.
Con Carol, l’operazione è ancora più complessa e raffinata. Perché Carol è un melodramma spogliato dalla passionalità tipica del genere. Un melodramma raggelato, sempre trattenuto, che racconta una passione enorme, ma non la lascia sfogare (quasi) mai.
Se si è un buon regista (non è necessario essere un grande regista) le scelte narrative che si compiono, al momento di mettere in scena uno script, coincidono con quelle stilistiche. Lo abbiamo ripetuto tante volte, ma è sempre necessario un bel ripasso: la forma è sostanza. Quando sento: “una bella confezione, ma vuota e senz’anima”, mi viene voglia di mettere mano al set di granate che porto sempre con me nello zaino.
Non esistono belle confezioni vuote. Un film può essere ben realizzato a livello professionale e niente altro, ma non sarà mai “bello”. La bellezza è la personalità del regista. E, se il regista ha personalità, potrà sbagliare, non fare un film particolarmente riuscito, ma non farà mai un film “vuoto”.
Un esempio: La Teoria del Tutto, film pessimo, ma sotto ogni punto di vista possibile. Non si può parlare neanche di “bella confezione”, perché la bellezza non sta da nessuna parte e la confezione è, al massimo, pulita.
Se si applica a Carol la definizione di “bella confezione vuota” si dice una cosa falsa. Oggettivamente falsa. Solo che, per comprenderlo, è necessario informarsi e anche sapere ciò di cui si sta parlando.
Non esistono belle confezioni vuote. Un film può essere ben realizzato a livello professionale e niente altro, ma non sarà mai “bello”. La bellezza è la personalità del regista. E, se il regista ha personalità, potrà sbagliare, non fare un film particolarmente riuscito, ma non farà mai un film “vuoto”.
Un esempio: La Teoria del Tutto, film pessimo, ma sotto ogni punto di vista possibile. Non si può parlare neanche di “bella confezione”, perché la bellezza non sta da nessuna parte e la confezione è, al massimo, pulita.
Se si applica a Carol la definizione di “bella confezione vuota” si dice una cosa falsa. Oggettivamente falsa. Solo che, per comprenderlo, è necessario informarsi e anche sapere ciò di cui si sta parlando.
Sapete in che formato è girato Carol?
In 16mm. Sì, una sorta di ritorno alla preistoria. Considerate che, oggi, il 90% dei film che vedete in sala è girato in digitale, una percentuale più bassa è in 35mm (L’Episodio VII di Star Wars e Il Ponte delle Spie), mentre il 16 non lo usa più nessuno. Siamo abituati, infatti, a una definizione altissima delle immagini, e il 16 tende a sgranare. Se un tempo (neanche troppo lontano: ho lavorato così fino al 2008), quando giravi in pellicola, una volta ultimato il montaggio si ricostruiva la copia e poi, dopo varie fasi, si arrivava a tagliare il negativo, adesso il negativo si scannerizza. Con il 35mm, il DI (che sta per digital intermediate) permette un’altissima definizione delle immagini. Col 16mm questo non è possibile. Se avete visto Carol in sala, magari in una sala con schermo molto grande, avrete notato la presenza di una certa patina sull’immagine, la famosa grana. No, non era un errore. Era voluto e studiato, come ogni dettaglio del film.
Il direttore della fotografia, Edward Lachman, ha scelto, insieme ad Haynes, di usare un tipo “superato” di pellicola per poter riportare fedelmente l’atmosfera dell’epoca. E non solo: essendo il personaggio di Therese una fotografa, e avendo le fotografie un ruolo fondamentale all’interno della storia, l’idea di Lachman è stata quella di dare l’impressione di star guardando una fotografia anni ’50 in movimento. Inoltre, il 16mm, con tutte le sue “sporcature” conferisce, sempre secondo Lachman, un tocco di calore umano alle immagini, necessario per raccontare una storia d’amore così complessa e sofferta.
Questo per dire che, a riempirvi la bocca con la nozione errata di “bella confezione vuota” non ci fate una gran figuretta. Lo sforzo artistico alla base di Carol è gigantesco e va a giocare con le emozioni dello spettatore in modo molto sottile, quasi subliminale.
Proprio come fa il romanzo, modificato in tutta una serie di particolari secondari (la vicenda occupa un arco temporale più breve, Therese non è un’aspirante scenografa come nel libro, il personaggio di Carol è meno duro e spigoloso rispetto a quello messo su carta dalla Highsmith), ma rispettato nel suo spirito più profondo. E nel suo messaggio rivoluzionario.
Vi prego di interrompere la lettura se non avete visto il film, perché partono gli SPOILER A MANETTA (pure in maiuscolo).
I lesbian pulp erano caratterizzati da finali tragici, con le due protagoniste che, dopo aver consumato la loro “passione proibita” si suicidavano o impazzivano o entrambe le cose. La Highsmith compie un gesto di importanza capitale. Ci mette un lieto fine. Che forse sarebbe più appropriato definire come finale aperto. Ma che almeno riusciva a dare a quella storia d’amore una speranza di felicità, una prospettiva per il futuro che non fosse follia e morte.
I cinici di quartiere (e per quartiere intendo la blogosfera italica) si sono lamentati degli ultimi dieci minuti di Carol. Hanno accusato il film di essere “politicamente corretto”. A parte il mio odio personale per questa espressione applicata alla come capita e alla bisogna, la lobby gay che vuole il trionfo dei buoni sentimenti non ci azzecca niente. Si tratta solo di rispettare un testo che, una sessantina di anni fa, quando gli omosessuali venivano spediti dallo psichiatra (nel migliore dei casi), ebbe il coraggio enorme di dire che esisteva un’altra strada, che si poteva rivendicare la propria identità e vivere la vita che si era scelta.
E mi dispiace, sinceramente, con tutto il cuore, per chi avrebbe desiderato un finale tragico come nei lesbian pulp a 25 centesimi l’uno, con Carol in manicomio e Therese suicida, magari. Mi dispiace per voi, perché non siete meglio di un Adinolfi a caso.
Tutto il resto è chiacchiericcio da osteria. Non è necessario mostrare una scena di sesso pornografica da svariati minuti. Non siamo ne La Vita di Adele. Carol è un melodramma hollywoodiano, narrato attraverso un vetro opaco. E quindi sì, è un film che procede con una certa lentezza, che è però solennità, che racconta un amore riservato e pudico, in perfetta aderenza alla sua ambientazione. È uno studio di personaggi, narrati attraverso la loro gestualità, più che attraverso i dialoghi. È un film di grande compostezza, ma non per questo è freddo, tutt’altro. I sentimenti ci sono, sono potentissimi ma sempre sussurrati, mai gridati, spesso appena suggeriti e richiedono uno sforzo da parte dello spettatore.
Se vi aspettavate qualcosa di più rumoroso, prego, su youporn c’è un sacco di roba che potrebbe fare al caso vostro.
Vi linko la bellissima recensione di Kara Lafayette.
I cinici di quartiere (e per quartiere intendo la blogosfera italica) si sono lamentati degli ultimi dieci minuti di Carol. Hanno accusato il film di essere “politicamente corretto”. A parte il mio odio personale per questa espressione applicata alla come capita e alla bisogna, la lobby gay che vuole il trionfo dei buoni sentimenti non ci azzecca niente. Si tratta solo di rispettare un testo che, una sessantina di anni fa, quando gli omosessuali venivano spediti dallo psichiatra (nel migliore dei casi), ebbe il coraggio enorme di dire che esisteva un’altra strada, che si poteva rivendicare la propria identità e vivere la vita che si era scelta.
E mi dispiace, sinceramente, con tutto il cuore, per chi avrebbe desiderato un finale tragico come nei lesbian pulp a 25 centesimi l’uno, con Carol in manicomio e Therese suicida, magari. Mi dispiace per voi, perché non siete meglio di un Adinolfi a caso.
Tutto il resto è chiacchiericcio da osteria. Non è necessario mostrare una scena di sesso pornografica da svariati minuti. Non siamo ne La Vita di Adele. Carol è un melodramma hollywoodiano, narrato attraverso un vetro opaco. E quindi sì, è un film che procede con una certa lentezza, che è però solennità, che racconta un amore riservato e pudico, in perfetta aderenza alla sua ambientazione. È uno studio di personaggi, narrati attraverso la loro gestualità, più che attraverso i dialoghi. È un film di grande compostezza, ma non per questo è freddo, tutt’altro. I sentimenti ci sono, sono potentissimi ma sempre sussurrati, mai gridati, spesso appena suggeriti e richiedono uno sforzo da parte dello spettatore.
Se vi aspettavate qualcosa di più rumoroso, prego, su youporn c’è un sacco di roba che potrebbe fare al caso vostro.
Vi linko la bellissima recensione di Kara Lafayette.
CAROL: UN FILM SUBLIME SULL’AMORE E SUL CORAGGIO DELLE SCELTE
10 gennaio 2016
“Niente accade per caso. Tutto torna al punto di partenza”
Superbe. Dice bene The Wall Street Journal a proposito di Cate Blanchett e Rooney Mara protagoniste diCarol, film di Todd Haynes tratto dal romanzo scandalo di Patricia Highsmith The price of the salt (1952, pubblicato in Italia da Bompiani col titolo di Carol). Siamo a New York, negli anni Cinquanta. Carol (Cate Blanchett) è in rotta col marito Harge (Kyle Chandler), con la famiglia di lui, con l’intera società a causa della sua omosessualità (ha avuto una chiacchieratissima relazione con Abby Gerhard (Sarah Paulson). Carol e Harge hanno una bambina a cui Carol è profondamente legata. È una donna elegante, forte, controcorrente, Carol. Ama la bella vita, non ha mai lavorato, fa solo quel che le piace. Un giorno si imbatte in Therese Belivet (Rooney Mara), una ragazza più giovane, con la passione della fotografia e le idee confuse. Un concentrato di sensibilità, avvenenza e promesse. È davanti a Carol che Therese scopre di non aver mai amato prima. Nonostante lo smarrimento, si lascia trascinare da una corrente inattesa e carica di novità. Molla un fidanzato che non ama e parte con Carol. Il viaggio che le due donne intraprendono, in fuga da se stesse, per una ragione o per un’altra, è soprattutto una presa di coscienza. Lo è per Carol che non rinnegherà se stessa scendendo a patti col marito. Lo è per Therese che raccoglierà il suo essere a piene mani e indirizzerà le sue energie verso quel che ama fare.
Carol non è solo un film d’amore. Carol è un film sulla forza interiore, sulla verità, sulle scelte. Sulla possibilità di guardare e dire le cose per come sono, senza orpelli. Carol è un film sul prezzo dei compromessi. Carol è un film storico e sociale (gli anni Cinquanta, le donne, il pensiero dominante bigotto dell’epoca). Sublimi i costumi, le scenografie e la colonna sonora che enfatizza e carica di significato gli sguardi, i non detti della sceneggiatura. Vi rifarete gli occhi e le orecchie: è un bagno di Bellezza. Vi emozionerete.
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