Ogni genitore gay o lesbica che si rispetti non può affrontare l'iscrizione a scuola dei propri figli senza una dotazione minima. Lo zainetto del genitore arcobaleno (presto disponibile in fucsia per i soci di FA) contiene almeno una penna nera e un paio di libri.
Noi genitori omosessuali in genere incontriamo le educatrici o gli insegnanti prima che loro conoscano i nostri figli. Presentiamo la nostra famiglia, raccontiamo la nostra storia, spieghiamo come i nostri bambini sono venuti al mondo, chi riconoscono come genitori.
Usiamo la parola “genitore”, che non è una parolaccia, ma un termine che definisce in maniera inclusiva tutte (o quasi) le persone che si occupano di un bambino assumendosi la responsabilità della sua cura, della sua educazione e della sua crescita.
Sarebbe ovvio che le istituzioni adottassero per i documenti ufficiali la stessa terminologia, lasciando aperta la possibilità di descrivere la famiglia di ogni bambino a partire dal reale e non dal presupposto.
Tuttavia, dal momento che nella maggior parte dei casi la modulistica non ci prevede, per formalizzare l'iscrizione abbiamo due scelte: una cancellatura sul modulo o una cancellazione della realtà. La scelta spesso è dettata dall'opportunità. Non si rischia di far perdere l'anno scolastico al proprio figlio per correggere un modulo diretto a un ufficio al quale non abbiamo accesso. Si forzano con decisione, invece, tutte quelle carte che possono essere accompagnate da una spiegazione diretta. La penna nera serve a questo e non se ne può ancora fare a meno.
Superato lo scoglio burocratico, il lavoro del genitore arcobaleno non è finito. A questo punto si tratta di creare una relazione collaborativa con educatori e insegnanti, di aiutarli a maneggiare le informazioni che gli abbiamo appena fornito, tenendo conto del fatto che spesso per loro è la prima volta e che una certa dose di pregiudizio omofobico è radicato in tutte e tutti noi.
Se siamo bravi, ci fanno delle domande. Se siamo molto bravi, esprimono dei dubbi.
“Come vi chiama?”, “Non gli manca un papà/una mamma?”, “Sa chi è il padre/la madre?”, “Sa cos'è un padre/una madre?”, “Ha una figura maschile/femminile di riferimento?”, “Cosa possiamo dire agli altri bambini/ai genitori?”.
A questo punto riapriamo lo zainetto e tiriamo fuori i libri. Nell'espressione fintamente distratta con la quale un insegnante sfoglia il libro che abbiamo portato, in cui sono descritti tutti i tipi di famiglie, abbiamo imparato a leggere un reale sollievo, confermato dalla domanda quasi ansiosa che puntualmente segue la prima lettura “Posso tenerlo, questo?”.
Gli insegnanti e le educatrici hanno bisogno di raccontare storie che includano tutti tanto quanto i nostri figli di ascoltarle, hanno la stessa fame di riconoscimento, vocabolario, quotidianità.
Dovremmo sostenere con tutta la forza che abbiamo iniziative politiche come quelle di Camilla Seibezzi che, modificando i moduli e portando a scuola i libri al nostro posto, ci consentirebbero di svuotare il nostro zainetto dal kit del genitore arcobaleno, restituendoci la libertà di riempirlo con pastelli colorati, pacchetti di figurine e merende unte e profumate.
Credo anche che gli attacchi a Camilla e alle sue iniziative di modificare la modulistica scolastica e di mettere a disposizione delle biblioteche scolastiche testi che affrontano, con la delicatezza e la semplicità del racconto illustrato, i temi della complessità delle forme familiari, dell'integrazione delle disabilità, della compresenza pacifica e rispettosa delle diverse etnie, ci riguardino tutte e tutti perché ogni genitore, in fondo, ha il suo zainetto. Grazie, Camilla.
Noi genitori omosessuali in genere incontriamo le educatrici o gli insegnanti prima che loro conoscano i nostri figli. Presentiamo la nostra famiglia, raccontiamo la nostra storia, spieghiamo come i nostri bambini sono venuti al mondo, chi riconoscono come genitori.
Usiamo la parola “genitore”, che non è una parolaccia, ma un termine che definisce in maniera inclusiva tutte (o quasi) le persone che si occupano di un bambino assumendosi la responsabilità della sua cura, della sua educazione e della sua crescita.
Sarebbe ovvio che le istituzioni adottassero per i documenti ufficiali la stessa terminologia, lasciando aperta la possibilità di descrivere la famiglia di ogni bambino a partire dal reale e non dal presupposto.
Tuttavia, dal momento che nella maggior parte dei casi la modulistica non ci prevede, per formalizzare l'iscrizione abbiamo due scelte: una cancellatura sul modulo o una cancellazione della realtà. La scelta spesso è dettata dall'opportunità. Non si rischia di far perdere l'anno scolastico al proprio figlio per correggere un modulo diretto a un ufficio al quale non abbiamo accesso. Si forzano con decisione, invece, tutte quelle carte che possono essere accompagnate da una spiegazione diretta. La penna nera serve a questo e non se ne può ancora fare a meno.
Superato lo scoglio burocratico, il lavoro del genitore arcobaleno non è finito. A questo punto si tratta di creare una relazione collaborativa con educatori e insegnanti, di aiutarli a maneggiare le informazioni che gli abbiamo appena fornito, tenendo conto del fatto che spesso per loro è la prima volta e che una certa dose di pregiudizio omofobico è radicato in tutte e tutti noi.
Se siamo bravi, ci fanno delle domande. Se siamo molto bravi, esprimono dei dubbi.
“Come vi chiama?”, “Non gli manca un papà/una mamma?”, “Sa chi è il padre/la madre?”, “Sa cos'è un padre/una madre?”, “Ha una figura maschile/femminile di riferimento?”, “Cosa possiamo dire agli altri bambini/ai genitori?”.
A questo punto riapriamo lo zainetto e tiriamo fuori i libri. Nell'espressione fintamente distratta con la quale un insegnante sfoglia il libro che abbiamo portato, in cui sono descritti tutti i tipi di famiglie, abbiamo imparato a leggere un reale sollievo, confermato dalla domanda quasi ansiosa che puntualmente segue la prima lettura “Posso tenerlo, questo?”.
Gli insegnanti e le educatrici hanno bisogno di raccontare storie che includano tutti tanto quanto i nostri figli di ascoltarle, hanno la stessa fame di riconoscimento, vocabolario, quotidianità.
Dovremmo sostenere con tutta la forza che abbiamo iniziative politiche come quelle di Camilla Seibezzi che, modificando i moduli e portando a scuola i libri al nostro posto, ci consentirebbero di svuotare il nostro zainetto dal kit del genitore arcobaleno, restituendoci la libertà di riempirlo con pastelli colorati, pacchetti di figurine e merende unte e profumate.
Credo anche che gli attacchi a Camilla e alle sue iniziative di modificare la modulistica scolastica e di mettere a disposizione delle biblioteche scolastiche testi che affrontano, con la delicatezza e la semplicità del racconto illustrato, i temi della complessità delle forme familiari, dell'integrazione delle disabilità, della compresenza pacifica e rispettosa delle diverse etnie, ci riguardino tutte e tutti perché ogni genitore, in fondo, ha il suo zainetto. Grazie, Camilla.
Quando una fiaba racconta la diversità |
Martedì 18 Febbraio 2014 08:57 |
A cura di Laura d'Orsi, giornalista.
Sono sempre più numerose le famiglie con bambini adottati o stranieri, oppure cresciuti con genitori separati o dello stesso sesso, in nuclei familiari allargati, ricomposti o monogenitoriali.
Su questo presupposto si basa la decisione del Comune di Venezia, per iniziativa della consigliera comunale Camilla Seibezzi, di dotare 36 scuole materne e 18 asili nido di libretti di favole che spiegano, con un linguaggio adatto ai più piccoli, che la realtà è molto varia e non esistono solo le famiglie con una mamma un papà e i loro figli. Ed è scoppiata, puntuale, la polemica.
Dottoressa Scalari, trova che sia utile spiegare ai bambini così piccoli, in quanti modi si può coniugare una famiglia?
Assolutamente sì. Certo, bisogna usare uno strumento adatto, e quello più indicato è senza dubbio la fiaba, che da sempre è il mezzo per raccontare ai bambini il mondo e le sue complessità. Queste fiabe quindi sono un primo "seme" che viene gettato per far crescere nei piccoli una cultura della non discriminazione e dell'accoglienza.
Qualcuno ha parlato di provocazione, addirittura di propaganda gay...
Non c'è nulla di provocatorio in tutto questo. C'è la sacrosanta esigenza di educare i bambini alla pluralità, alla conoscenza delle diversità. Che ci sono e ci saranno sempre di più. Perché negarle? Non sarà peggio se una volta cresciuti, i bambini non avranno gli strumenti per capirle? La tolleranza inizia dalla conoscenza.
Le reazioni di molti sembrano riportare ai tempi in cui si discuteva dei diritti degli immigrati.
Ciò che si scatena davvero dentro molte persone è la paura del diverso. E di essere defraudati di qualcosa: la casa, il lavoro, la cultura, le proprie certezze. Si dimentica che si tratta di minoranze e che il mondo non è più "semplice" come un tempo. E' la realtà, inutile nascondersi dietro a un dito.
Il fronte dei contrari sostiene che così si ledono i diritti di chi ritiene che la normalità sia avere una famiglia "regolare". Cosa ne pensa?
L'equivoco più grande sta in questo: un conto è l'educazione, un altro è trasmettere dei valori ai propri figli. Chi crede che sia giusto crescere un bambino solo all'interno di una famiglia tradizionale, ha tutto il diritto di trasmetterlo ai suoi figli. Ma questo rientra nel piano dell'etica, non dell'educazione. Ritengo quindi sia corretto mostrare al bambino le diverse sfaccettature della realtà, abituarlo all'idea che esiste una pluralità. Poi ci sono le scelte e sta agli adulti guidare i figli verso quelle che loro ritengono più giuste.
Come accoglieranno i piccoli queste fiabe?
Come solo i piccoli sanno fare, con apertura, senza pregiudizi. Qualcuno sarà più incuriosito, qualcun altro non ne comprenderà il significato. Di sicuro non saranno lasciati soli con le loro domande: le fiabe verranno lette dalle insegnanti.
Le fiabe in questione sono state approvate anche da studiosi dell'Università, che le ritengono idonee ai più piccoli. Perché allora tutta questa polemica?
Il polverone è solo un pretesto per scatenare una discussione politica. I bambini non possono essere usati per questi scopi. E' la cosa che dovrebbe indignare di più in questa vicenda.
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