– by Egon Botteghi
Sono nato quarantadue
anni fa in una città di mare nel centro Italia, un porto di media
grandezza edificato, a partire dal quattrocento, con scarti di umanità.
Sarà per questa
origine, tra galeotti e donne di “malaffare”, che, nonostante la
mentalità provinciale, non ho ricordo di attacchi omofobi o razzisti su
questo territorio, che, già nel Seicento, fu il primo luogo del paese
dove gli ebrei poterono esercitare i loro commerci e vivere liberamente
fuori dal ghetto1.
Nacqui di domenica,
d’estate, e sembra che mio padre ne fosse molto irritato, avendo dovuto
rinunciare alla partitella di calcio con gli amici. Mia madre invece era
stanca e stressata, essendo io in ritardo di 20 giorni sulla tabella di
marcia redatta dal pediatra. Avevo già una sorella, di cinque anni più
grande, che, quando mi vide all’ospedale, esposto come un povero pesce
sui banchi del mercato, tutto urlante e pelato, scoppiò in lacrime. Ero
troppo brutto e lei non tollerava l’idea di dovermi portare a casa sua.
Questi sono i racconti
sulla mia nascita che mi faceva mia madre, e sarà da qui che ho
cominciato a coltivare l’idea di non essere molto amato ed apprezzato
dalla mia famiglia. Mia madre raccontava ancora che, quando mi portò la
prima volta dal pediatra, lui esclamò “Tolga quel giovanotto dalla
bilancia, che me la rompe!”. D’altra parte, fin dall’asilo, svettavo per
la mia stazza su tutt* i compagn*.
E così, già a partire
dalla socializzazione coatta delle scuole materne, imparai ad invidiare
le mie esili e femminili compagne, che sembravano possedere una grazia
innata a me totalmente assente, ed a sentirmici fuori posto.
Mi sentivo diverso da
quelle fanciulle e ricordo vari episodi in cui, cercai di imitarle,
anche se non capivo le regole di quei comportamenti e non li sentivo
miei (come quel giorno che vennero ad annunciarci, in prima elementare,
che la nostra maestra era morta. L’avevamo vista solo pochi giorni
all’inizio dell’anno, perché era già malata. Tutte le bambine
scoppiarono in un pianto da perfette prefiche, mentre io non sentivo
niente, perché era per noi una sconosciuta. Però alla fine mi vergognai
di non essere come loro e mi sforzai di piangere).
Mi piacevano i giochi
considerati maschili, come le macchinine e quelli fisici, come il rugby.
Ricordo benissimo, anche se si tratta di una cosa accaduta quando avevo
quattro anni, che per un Natale pretesi di avere un camion, e me lo
vedo ancora davanti, con la luce rossa che girava.
D’altra parte a
quell’età feci il mio primo ragionamento rivelatore, se i miei genitori
avessero saputo cosa stessi cercando di dire.
Non ho molti ricordi
di quell’epoca, eppure mi sembra ancora di essere lì, in una cucina
chiara, davanti al frigorifero. Sto dicendo a mia madre ed a mio padre
che, se mi fossi messo una carota davanti, sarei stato un perfetto
maschietto. Loro mi redarguirono, prendendomi anche un po’ in giro, e da
lì il mio destino sembrò compiersi: compresi, con estrema chiarezza pur
nella mia ingenuità, di essere un uomo senza la dovuta attrezzatura ed
una donna senza la voglia e la possibilità di esserlo.
Ho dato altri segnali
della mia condizione, ma non potevano che cadere nel vuoto in un
ambiente completamente impreparato ad accogliere un bambino come me,
dove la transessualità forse non si conosceva nemmeno attraverso i
peggiori stereotipi.
Sopratutto, visto che
il più delle volte ero preso in giro per il fatto di non riuscire a
stare la passo con il mio genere e non volere adeguarmi ad esso, mi
convinsi che ci fosse qualcosa di sbagliato in me e mi tenevo molte cose
dentro, come la fantasia fissa di essere un ragazzo.
Da quando cominciai a
fare giochi di ruolo, a giocare al gioco del “per finta-per-davvero”, io
interpretavo sempre ruoli maschili. Non vedevo l’ora che scendesse la
sera e andare a letto, dove, solo e sdraiato, inventavo tantissime
avventure che vedevano protagonista il ragazzo che mi sentivo di essere
nell’intimo.
Quando, ad undici
anni, tra la massima sorpresa dei miei genitori, comincia a giocare con
le barbie, in realtà le trasformavo in splendidi ragazzi protagonisti di
complicatissime storie, a volte anche un po’ “scabrose”.
Sarà anche per questo
che mi vergognavo molto di queste mie fantasie, e non ne parlavo con
nessuno. Credevo fosse una cosa molto brutta e sporca, come mi apparve
brutto che a dodici anni, in quell’inferno che furono le scuole medie,
mi trovai a guardare per la prima volta una ragazza con “altri” occhi.
Ho ancora davanti
l’immagine di quella compagna di classe, vedo perfettamente com’era
vestita quel giorno, gli sbuffi sulle maniche della camicetta, i suoi
soffici capelli biondi…
Dopo essere stato uno
scolaro modello, ma con un’unica grande amica del cuore di cui ero
gelosissimo, alle elementari, ed un ribelle picchiatore alle medie,
venne finalmente il liceo. Lì capitai, per fortuna, “nelle mani” di una
insegnante di lettere che ci insegnò ad apprezzare la diversità,
incontrai il mio primo amico transgender, e, in una gita in Inghilterra
nell’estate dei quindici anni, conobbi quello che fu il mio inseparabile
amico fino ai vent’anni, omosessuale.
Con Sandro cominciai
ad esplorare l’ambiente omosessuale, fare teatro e, nello stesso
momento, mi imbattei nella mia grande passione: l’equitazione. Ho
montato a cavallo per venticinque anni, prima come sport e poi come
professione.
Ho vissuto qualche
anno come lesbica mascolina, gratificandomi del fatto che le mie
compagne mi trattassero come un “uomo”; ma c’era sempre qualcosa che non
funzionava, che mi faceva sentire incompleto.
La scena omosessuale
allora era molto separatista, e non era valutata l’esistenza dei
bisessual*, ed io, che mi sono sempre sentito tale, venivo redarguito
dalla mie compagne come fossi un traditore della causa gay o come se
tradissi il mio ruolo di “maschio” all’interno della coppia.
Alla fine del liceo
decisi di iscrivermi a filosofia, e lì, il primo giorno, incontrai
quello che divenne il mio primo ragazzo. Ero “diventato” una carinissima
ragazza bisessuale, intrigante e perennemente vestita di nero. Quando
però finì quella storia, insieme al corso di studi, ero di nuovo una
“maschissima” lesbica accanto ad una donna che mi dava del “lui”.
Decisi, dopo la
laurea, di lasciare il mondo accademico e di buttarmi completamente nel
turbolento mondo dei cavalli, nell’universo chiuso degli ippodromi.
Vissi così dieci anni tra levatacce mattutine, galoppi sfrenati e
sfrenate serate in discoteca, ed anche lì ero una donna bisessuale molto
sexy e fu la prima volta che apprezzai il mio fisico, diventato un
fascio di muscoli.
Mentre lavoravo così
con i cavalli da corsa, conobbi quello che divenne il padre dei miei
figl* e mio marito. Era un ragazzo di dieci anni più giovane di me, che
gestiva un centro ippico ed aveva bisogno di un istruttore di
equitazione. Gli avevano suggerito il mio nome e quando lo incontrai per
valutare la sua proposta, rimasi colpito dalla sua professionalità,
dalla sua onestà e dal modo impeccabile con cui teneva i cavalli.
Nonostante avessi già
un lavoro, accettai, perché mi piaceva l’ambiente che aveva creato e mi
sacrificai per un anno lavorando la mattina all’ippodromo ed il
pomeriggio e nei fine settimana nel suo centro ippico. Fu un periodo in
cui mi sentivo libero, dividevo la casa con una ragazza tedesca, avevo
una situazione economica tranquilla ed una vita sessuale libera.
Il giorno di inizio
primavera in cui il mio futuro coniuge, che allora era solo un datore di
lavoro di cui avevo molta stima, mi dichiarò il suo amore, mi crollò il
mondo addosso: scappai in macchina fino al bar dell’ippodromo e
confessai i miei problemi alla barista che mi versava la birra, come nel
più classico dei film americani.
Ero in crisi: non
avevo mai pensato a quel ragazzo se non come amico, ma adesso che “mi
chiedeva la mano” come avrei potuto rifiutare?
Io mi sentivo una
trentenne un po’ sbandata, che faceva uso ludico di droghe sintetiche,
che viveva in un ambiente degradato come quello degli ippodromo, e mi
trovavo ad essere oggetto di interesse da parte di un uomo più giovane,
benestante, di impeccabili principi morali…era come se stesse passando
il treno chiamato “sistemati” ed io credetti di non poter permettermi di
lasciarlo passare.
Così accettai la sua
corte e lui si installò seduta stante nella mia casa, da cui fuggirono
la mia inquilina ed il “mio” gatto. Dopo qualche mese dissi addio alle
piste da corsa ed iniziai a lavorare tutta la giornata nel centro ippico
come istruttore e come artiere.
Si realizzò il sogno
del “mio uomo”: vivere e lavorare con la “sua donna”, stare ventiquattro
ore insieme e condividere tutto ma, sopratutto, controllarla in tutto.
Io gli avevo raccontato, al tempo della nostra amicizia, di me, delle
mie esperienze, del mio orientamento bisessuale, delle mie incursioni
nei “paradisi artificiali”. Il risultato fu che lui non sopportava il
mio passato, che denigrava tutto quello che ero e che avevo fatto, ed
era assolutamente geloso delle donne.
Mi sentivo soffocato,
svalutato, prigioniero suo e del suo modo ossessivo di lavorare, del
modo in cui aveva costruito una gabbia intorno a noi, da come mi aveva
fatto terra bruciata intorno.
Nacque però, cercato
da me, il nostro primo figlio e fu questo, credo, che ci tenne ancora
insieme, aggiunto al fatto che lui per me rappresentava quella stabilità
di affetto che andavo cercando con ossessione, per riparare a quanto
mia madre mi diceva quando ero piccolo: che non mi avrebbe voluto e che,
con le mie sorelle, le avevo rovinato la vita.
La prima gravidanza fu
difficile, io non volevo ammettere di essere diverso, di dovermi
limitare in qualcosa e lavorai fino al giorno prima di partorire. Quando
rimasi incinta per la seconda volta, cercai di vivermela in maniera più
tranquilla, e di immedesimarmi il più possibile nel ruolo della madre
accudente.
Nel frattempo altre
cose erano cambiate: io e mio marito eravamo diventati vegani, avevamo
chiuso il maneggio per ragioni etiche e lo avevamo trasformato in un
rifugio per animali da reddito, ospitando, insieme ai cavalli da noi
liberati, mucche, asini, capre, pecore, maiali, galline, conigli.
Invece di insegnare ad
andare a cavallo, facevo visite guidate agli animali da fattoria che
vivevano nel grande recinto di tre ettari, cercando di trasmettere il
rispetto per tutti gli esseri viventi. Assecondando un forte desiderio
di mio marito, che invece io sentivo più come una imposizione,
trasformammo la nostra casa in una comune vegana.
In quel momento,
finito il periodo di “maternage” di mia figlia che aveva ormai tre anni,
stressato dalla convivenza con altre persone in uno spazio troppo
stretto, esacerbato dalle regole “monastiche” dettate dal “mio lui” e
dalla sua pretesa di sapere come deve vivere un essere umano, l’uomo che
dormiva dentro di me si risvegliò in maniera prorompente.
Quella porta che stava
dentro la mia anima, su cui c’era scritto a caratteri cubitali “non
aprire” pena il vivere e morire da solo perché troppo diverso, si
spalancò e quello che uscì non volle più rientrare, come invece aveva
sempre fatto nelle epoche precedenti della mia vita.
Ricominciai a vivere
nel mio mondo di fantasia, dove io ero un uomo. Lavoravo con gli
animali, parlavo con la gente, ma in realtà la mia anima era in
quell’universo dove io ero un ragazzo che si chiamava Egon. Cominciai a
riflettere sul perché non facessi più sesso con mio marito da anni e
decisi di parlarne con lui.
Partimmo per un fine
settimana ed io gli confidai dove andavo con il cervello quando sembrava
che invece fossi lì con lui, quale stanza attraversava la mia anima,
piena di personaggi bizzarri e misteriosi, tutti rigorosamente maschili.
Quella volta, invece
di arrabbiarsi, di urlare dicendo come sempre che ero una “testa di
cazzo”, mi ascoltò e accettò la mia richiesta di trattarmi come un uomo,
almeno nell’intimità. Da quel giorno non vedevo l’ora che scendesse la
sera, che rimanessimo insieme noi due soli, per vivere questa dimensione
per me magica.
Decisi di andare fino
in fondo e continuare ad investigare le ragioni del mio comportamento.
Lo iato però tra la realtà e le mie fantasie era duro da sopportare e
cominciai a bere per continuare a comportarmi come nulla fosse e per
adempiere ai miei doveri durante il giorno.
Spaventati, ci
rivolgemmo ad una terapeuta, che si rivelò un aiuto preziosissimo ed
un’anima bellissima. Con lei tirai fuori il ragazzo che stava
prigioniero, arrabbiato e tremante dentro di me e decisi di rivolgermi a
degli specialisti di “disturbi di genere”. Andai così a Firenze,
all’ospedale di Careggi, dove, nel reparto di endocrinologia, c’è un
centro per la “cura” del “dig”2.
Mio marito mi
accompagnò ai primi appuntamenti, ma quando si accorse che non sarei
“guarito” nella maniera che si sarebbe aspettato, cioè tornando ad
essere la sua “mogliettina”, ma che sarei invece diventato l’uomo che
ero, abbandonò tutto e si chiuse, cosa anche comprensibile se non fosse
stata poi accompagnato da comportamenti scorrettissimi dettati dalla
rabbia verso di me, nel suo dolore.
Fu un anno durissimo,
abitavo ancora con lui pur non essendo una coppia, litigavamo
selvaggiamente, la preoccupazione ed il senso di colpa per i figli mi
attanagliavano, la mia famiglia d’origine non mi parlava più. Lavorare
con il mio ex si rivelò impossibile, ed alla fine fui spinto ad
abbandonare tutto, il mio lavoro, la mia casa, gli animali non umani che
avevo accudito per anni.
Cercai una nuova casa
in cui vivere insieme ai miei figl* nei giorni prestabiliti (nel
frattempo mi ero separato consensualmente ed avevo ottenuto l’affido
condiviso) e trovai un nuovo lavoro.
Da lì, grazie anche
alla riuscita del rapporto terapeutico con la psicologa del consultorio
transgenere di Torre del Lago che iniziai a frequentare contestualmente
al Careggi di Firenze, cominciò una vera rinascita, o forse meglio dire,
un ritrovamento, libero dall’ansia e dai sensi di colpa per non essere
quello che ci si sarebbe aspettati per norma.
La mia più grande
paura era naturalmente per i figl*: temevo che la mia transizione li
avrebbe condizionati negativamente per tutta la vita, creando loro un
trauma psicologico talmente forte da danneggiarli per sempre. Invece,
seguendo i chiari consigli della “mia psicologa”, i miei figl* mi hanno
visto cambiare e mascolinizzarmi, grazie alla cura ormonale ed
all’operazione di mastoplastica, senza dare nessun segno di sofferenza.
Fondamentale è stata
la loro giovane età (tre e cinque anni all’epoca dell’inizio del
percorso), per cui non erano ancora sclerotizzat* in convincimenti sui
generi, l’ambiente aperto in cui hanno comunque sempre vissuto, dove
passavano decine di persone di tutte le forme che venivano attratti
dagli animali non umani e dallo stile di vita vegan della nostra casa,
ma sopratutto la sincerità con cui abbiamo sempre affrontato
l’argomento.
Ogni volta che loro mi
chiedevano una cosa, e dovevo aspettare che fossero loro a domandare e
non anticiparli con delle informazioni non richieste, io rispondevo con
assoluta sincerità e semplicità. Non bisogna confondere i bambini con
bugie e false informazioni, è proprio la poca chiarezza a fare danni,
non le verità comunicate con delicatezza ed in modo per loro
comprensibile.
Adesso, che hanno
cinque e otto anni, sanno che nel mondo ci sono uomini a cui piacciono
le donne, uomini a cui piacciono gli uomini o tutti e due, così come
donne a cui piacciono le donne e donne a cui piacciono gli uomini o
entrambi, che ci sono persone nate “uomini” che si sentono donne e che
affrontano il lungo percorso per essere tali anche nel fisico e agli
occhi del mondo, come ci sono quelle nate donne ma che non si sentono
tali, ma uomini, tra cui la loro madre, che per questo è cambiata nel
fisico ma non nel suo ruolo, che è quello di accudirli, di proteggerli e
sopratutto di amarli come loro vogliono essere amati.
Credo che invece di
considerarsi menomati possano avereuna marcia in più, perché sono lungo
il percorso verso cui spero una società più egualitaria stia andando.
Questo è quello per cui lotto ogni giorno.
Potrebbero arrivare
tempi bui, in cui magari verranno sbeffeggiati per le diversità di cui
sono portatori, ma il mio compito è renderli forti e sicuri, ovvero
amati, per affrontare questo, ma non rinuncio a me stesso per poi magari
riversare su di loro le mie frustrazioni.
La mia esperienza
sfata anche un altro mito, quello per cui i bambini verrebbero confusi
da genitori o adulti di riferimento non eterosessuali e/o transessuali: i
miei figli, di fronte all’esperienza di donne MtF o uomini FtM come me,
hanno subito manifestato di sentirsi bene e a proprio agio con il loro
sesso biologico di appartenenza.
Loro sanno chi sono
loro e sanno chi sono io, e questo mi mette nelle condizioni di essere
me stesso davanti a tutto il mondo, senza dovermi più nascondere.
1Per favorire il popolamento della città, Ferdinando I, granduca di Toscana, promulgò varie leggi che andarono a formare la Costituzione Livornina, nel 1653, indirizzata sopratutto agli ebrei ed ai mercanti di tutte le nazioni che fossero venuti ad abitare a Livorno. Tra gli aspetti più importanti c’erano la garanzia della libertà di culto, di professione religiosa e politica.
1Per favorire il popolamento della città, Ferdinando I, granduca di Toscana, promulgò varie leggi che andarono a formare la Costituzione Livornina, nel 1653, indirizzata sopratutto agli ebrei ed ai mercanti di tutte le nazioni che fossero venuti ad abitare a Livorno. Tra gli aspetti più importanti c’erano la garanzia della libertà di culto, di professione religiosa e politica.
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