Stefania, Caterina e l’arrivo di Nicolas
di Elena Tebano
Nicolas è arrivato con una valigia mezza vuota e le buste della spesa piene di cose. Tredici anni che sembravano meno, figlio di una donna sola che spesso «sparisce» inghiottita dal buco nero della depressione, secondo la definizione dei servizi sociali era in uno «stato di abbandono». Lasciato a se stesso senza che nessuno badasse davvero a lui. In questi casi scatta l’affido di emergenza: il bimbo viene preso in carico dai servizi sociali che gli cercano una sistemazione. Per lui ha significato andare a casa diStefania e Caterina, una delle prime coppie omosessuali affidatarie in Italia.
Fenomeno finora rimasto sotto traccia, è emerso dopo che a novembre scorso il Tribunale di Bologna ha affidato una bimba a una coppia di uomini nel Parmense. In realtà è più diffuso di quanto si pensi: ci sono famiglie gay che hanno preso in carico bimbi a Torino, Genova, Roma e Milano. Stefania e Caterina, emiliane, quarantenni, insieme da dieci anni, sono le prime a raccontare la loro storia (i nomi e alcuni particolari sono stati cambiati per proteggere l’identità del minore).
L’arrivo di Nicolas, un anno fa, le ha colte di sorpresa: «Avevamo appena finito i colloqui per l’idoneità con i servizi sociali. Ed eravamo d’accordo che avremmo iniziato con bambini piccoli e per periodi molto brevi: quelli che servono a tamponare le emergenze – racconta Stefania –. Invece ci hanno proposto un adolescente, per quattro mesi. Siamo dovute correre da Ikea a comprargli i mobili per la camera».
Quattro mesi possono sembrare pochi, soprattutto per chi pensa all’affido come a una specie di adozione. Non è così. «Nell’affido sei al servizio. I bambini ti “usano”, prendono da te più che possono. Non è un’adozione mascherata – spiega Federica Anghinolfi, responsabile del servizio sociale in provincia di Reggio Emilia –. Ma un luogo “accuditivo”, in attesa che la famiglia naturale, i genitori o il genitore, si riprenda. Per questo ètemporaneo, dura massimo due anni». Molti affidatari invece si aspettano di trovare un figlio; è uno dei motivi per cui – dice Anghinolfi con aria rassegnata – «gli adolescenti non li vuole nessuno».
«Noi invece non avevamo bisogni di maternità insoddisfatti: è stata la prima cosa che abbiamo chiarito con i servizi sociali – racconta Caterina –. La seconda è che non eravamo lì per fare da portabandiera alla causa gay. Non siamo in nessun modo militanti. Siamo solo convinte che nella vita di un ragazzo anche incontri brevi possano fare la differenza. Evolevamo essere d’aiuto». Il primo mese con Nicolas è stato difficile. «Ci ha messe alla prova in tutti i modi, aveva atteggiamenti di sfida, era strafottente. E molto chiuso: non era abituato ai gesti di affetto, non sapeva neppure come accarezzare il gatto, lo toccava con la mano stesa e rigida», racconta Caterina. Anche le cose più semplici erano complicate: «La mattina non si vestiva se non gli preparavo io le cose. Fargli fare la cartella per la scuola era un’impresa», aggiunge Stefania. Lei e Caterina si sono chieste tante volte quale fosse la strategia migliore, se aveva senso il braccio di ferro costante: «Ci siamo risposte: paletti e coccole. E siamo andate avanti. Le cose sono cambiate un giovedì mattina: si è alzato, si è preparato la cartella senza che nessuno gli dicesse niente, si è vestito ed è venuto in cucina. È come se avesse fatto clic: aveva iniziato a fidarsi di noi».
Stefania e Caterina hanno detto subito a Nicolas di essere una famiglia, ma non hanno affrontato direttamente il tema omosessualità: «Se ci fosse arrivata una domanda diretta avremmo risposto. Ma ancora non è successo», dice Stefania. «Adesso che è passato un anno stiamo cercando di capire come parlargliene, non vogliamo che diventi un peso per lui», aggiunge Caterina. La questione omosessualità non è stata un ostacolo neppure per i servizi sociali, nonostante per loro fosse il primo caso del genere. Eppure può sembrare strano che Nicolas sia stato affidato a una coppia lesbica: cresciuto con una madre single, viene da chiedersi perché non sia stato scelta una soluzione che potesse dargli una «figura paterna».
«Non è per forza il genere che definisce la figura paterna, ma il ruolo: è il genitore “normativo”, quello che dà le regole – replica Federica Anghinolfi –. Mentre la figura materna è calda, “accuditiva”. Nelle coppie omosessuali i ruoli sono più interscambiabili, ma anche in quelle etero ci sono madri normative e padri materni. L’importante è sapere gestire entrambe le funzioni, perché i bambini ne hanno bisogno», aggiunge, forte del lavoro sulla genitorialità gay (seminari di approfondimento e corsi di formazione) fatto in questi mesi dai servizi sociali emiliani. Lo conferma anche una ricerca svolta dall’Università di Cambridge nel Regno Unito per conto della British Association of Adoption and Fostering (un’associazione no profit che si occupa di adozioni e affidi) e pubblicata a marzo scorso, da cui emerge che i bambini affidati alle coppie gay non differiscono nei risultati da quelli cresciuti dalle coppie etero. Anzi, dai dati emerge che ipadri gay fanno meglio degli altri (etero e lesbiche) perché per loro l’adozione e l’affido sono spesso la prima scelta e non un ripiego in caso di infertilità.
Per altro nel caso di Nicolas l’affido con una coppia eterosessuale è stato tentato e non è andato a buon fine. È successo dopo che sono passati i quattro mesi previsti per la permanenza da Stefania e Caterina. «Gli abbiamo trovato un uomo e una donna senza figli che lo avrebbero tenuto per un periodo lungo. Ma lì la relazione non ha funzionato: dopo due mesi ci hanno chiamati dicendo che non ce la facevano ad andare avanti». Fortunatamente nel frattempo la mamma di Nicolas, che va molto d’accordo con Stefania e Caterina, stava meglio ed è potuta tornare ad occuparsi almeno in parte di lui. Così è stato deciso un affido parziale: il bimbo passa parte della settimana dalla madre, il resto e quasi tutti i pomeriggi dalle affidatarie. «Sembriamo una coppia separata – sorride Caterina – Intanto abbiamo spiegato a Nicolas che adesso è entrato nella nostra famiglia: ci ha fatto un sorrisone. Ora scherza che andremo al suo matrimonio con la dentiera e il bastone». L’affido parziale non ha limiti di durata e ha cambiato le cose anche per Caterina e Stefania: «Sappiamo che non siamo le sue madri – spiegano – Ma adesso facciamo fatica a pensare per due: pensiamo per tre».
Università degli Studî Suor
Orsola Benincasa
Servizio di Orientamento e
Tutorato di Ateneo
Facoltà di Giurisprudenza
L'affidamento del figlio minore al genitore omosessuale
Gli allievi delle scuole campane
aprono al cambiamento sociale
Per il giudice Cavallo
“La sentenza della Cassazione è una
chiara apertura ai matrimoni gay”
Comunicato
Stampa
“La
sentenza 601/2013 della Corte di Cassazione mi appare un’ evidente apertura
della giurisprudenza ad un cambiamento sociale della realtà che riconosce ormai
l’esistenza di famiglie omogenitoriali il cui riconoscimento formale spetta
però al legislatore”. Conclude così Melita Cavallo, presidente del Tribunale per i minorenni di Roma, il suo intervento al processo simulato
organizzato dalla Facoltà di Giurisprudenza dell’Università Suor Orsola
Benincasa sul tema dell’affidamento di un figlio minore ad una coppia
omosessuale.
Un’apertura che raccoglie anche le
sollecitazioni degli oltre 300 studenti
presenti in sala e provenienti da tredici diverse scuole secondarie di secondo
grado della Campania ed anche dal Liceo Flacco di Potenza per
l’appuntamento inaugurale della terza edizione del Ciclo di incontri di Orientamento al diritto attraverso la simulazione di
un processo organizzati dal Suor Orsola.
L’incontro si è svolto in modo
da riprodurre una vera
e propria simulazione processuale in cui le tesi giuridiche dell’accusa e
della difesa sono state presentate e sostenute rispettivamente dagli avvocati Ivana Terracciano Scognamiglio e Ilaria Amelia Caggiano e il collegio
giudicante presieduto dalla Cavallo è stato formato da quindici studenti in
rappresentanza delle diverse scuole.
Il verdetto finale è stato in
linea con quello della Cassazione: via libera all’affidamento esclusivo del
minore alla madre che convive con un’altra donna, perché, come ha già spiegato
la Suprema Corte, “è un mero
pregiudizio che sia dannoso per l'equilibrato sviluppo del bambino il fatto di
vivere in una famiglia incentrata su una coppia omosessuale”.
Un
verdetto non unanime, però. “Mi ha molto sorpreso - ha spiegato Melita Cavallo - vedere che nemmeno tra i giovani non vi sia
l’unanime recezione del cambiamento del costume sessuale e questo dimostra
che ci sono ancora importanti passi avanti da fare nella percezione sociale dei
nuovi concetti di famiglia”. Passi avanti che, come ha spiegato la Cavallo, non
spettano solo alla magistratura che
“svolge un ruolo importante con interventi giurisprudenziali che fanno da
apripista alla codificazione di evidenti mutamenti sociali”, ma che ha bisogno
del contributo del sistema politico che in Italia non è ancora riuscito a
legiferare su un tema sempre più pressante come quello delle unioni gay.
Università degli Studi Suor Orsola Benincasa
Ufficio Stampa e Comunicazione
Dott. Roberto Conte
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