Spesso leggo romanzi di autori contemporanei in cui i giovani protagonisti vivono in grandi metropoli e trascorrono le loro giornate tra esclusivi eventi mondani e sessioni sfrenate di shopping. Difficilmente trovo storie più “comuni”, di giovani di provincia, meno glamour magari, ma più sincere. Cuore Satellite di Pierpaolo Mandetta è un esempio di romanzo “sincero”, dove ad essere raccontata è la provincia italiana. Il protagonista, Paolo, è un giovane di 27 anni che vive a Salerno, con un’amica che cucina per lui e un fidanzato che lo ama. Rimanere in provincia, nel suo caso, non è quindi una necessità, ma una scelta. Scelta fatta anche dall’autore del romanzo, che dopo aver frequentato
Cuore satellite è la storia di Paolo, un ragazzo che come tanti vive in provincia, ma non per necessità, bensì per scelta. Una “stranezza” in un’epoca in cui i giovani fuggono dalla provincia per dirigersi nelle grandi città. La scelta di Paolo è poi anche la tua scelta: cosa ci fa un giovane scrittore a Paestum? Come trascorre le sue giornate e dove trova gli stimoli per le sue storie?
Fammi prima dire grazie per questa intervista, ne sono davvero onorato. Sì, la mia scelta è stata rimanere qui, in paese, e non è stata facile. Ho sempre invidiato la vita eclettica, divertente e stimolante dei ragazzi di città, mentre in paese mancano cultura, divertimento, quel sesso a domicilio h24. Ho provato più di una volta a trasferirmi prima a Torino, poi a Milano e Bologna, e ne sono uscito sempre depresso. Alla fine ho accettato di essere un ragazzo di campagna che adora starsene per fatti suoi. Le mie giornate son semplici. Lavoro nel bar dei miei, coltivo piante e fiori in cortile, vado in bici per campagne, mangio quantità preoccupanti di pasta e pizza, e scrivo romanzi.
Cuore satellite è anche il racconto dell’omosessualità vissuta nella provincia italiana. Se i giovani fuggono da contesti piccoli e spesso arretrati, la tendenza riguarda ancora di più i giovani omosessuali, che cercano nella grande città la libertà di potersi esprimere. Come vivi la tua omosessualità in provincia? E quali sono gli stereotipi contro cui ti scontri più spesso?
I problemi della provincia cominciano presto per chiunque, quando vuoi limonarti il tuo compagno di classe in camera senza che tua madre lo scopra, ma tanto lo farà. Quando vuoi vestirti come ti pare, ma tuo padre e i suoi amici ti guardano storto. Quando sei il più sensibile e carismatico della scuola e quindi ti chiamano ricchione. Perciò a 18 anni non vedi l’ora di mandare tutti a fanculo e fuggire in una qualsiasi città, in cui nessuno ti conosce e la gente è troppo occupata ad esaurirsi coi mezzi pubblici per poter essere impicciona. Io ho fatto delle scelte strane. Ho vissuto da timido e isolato per sfuggire all’ostilità, rinunciando a molti anni che altrove avrebbero potuto essere felici, per poi capire piano piano che la gente ha paura di quello che nascondi, non di quel che fai alla luce del sole. Quando la gente capisce che fai le cose ordinarie che caratterizzano la vita di chiunque, allora la tua vita conquista un equilibrio, ovunque tu sia.
Con questo romanzo, Cuore satellite, ho voluto creare un personaggio che non avesse particolari problemi a vivere la propria omosessualità in un contesto ristretto come Salerno, ma che anzi riuscisse a vederne gli aspetti positivi, seppur pochi. Giornate placide, vicine che preparano la pasta, la natura intorno, la comicità degli anziani, delle cassiere, dei vicini di casa.
Hai pubblicato una raccolta di racconti erotici gay e bisex, Aperti di notte. Le persone a te più care, penso alla famiglia in primis, hanno letto i racconti? E come hanno reagito?
Rido sempre a pensarci. Beh, no. Tengo i racconti erotici ben lontani dalla famiglia. Mia madre sa che li scrivo. Povera, ormai da me si aspetta di tutto. Mio padre non ne ha idea. Gli amici gay li leggono con piacere. Gli amici etero mi vedono come un pornografo.
In questi giorni sono ancora vive le polemiche post Family Day, in cui si è celebrato un ideale di “famiglia tradizionale” che ormai non esiste più. Questi sono anche i giorni del Pride, con la sua nuova formula itinerante in vari centri italiani. L’Italia si conferma sempre più Paese delle contraddizioni: pensi che un giorni si arriverà a quel sospirato cambiamento culturale di cui abbiamo bisogno? E vorresti un giorno metter su famiglia e come la immagini nel caso?
Ma certo che si arriverà. Ci siamo già arrivati. Lo viviamo tutti i giorni, anche se i media continuano a far credere che sia tutto ancora in divenire. Le famiglie sono già allargate, divorziate, distrutte, gay, etero, strane. Il bello della normalità è che in ognuna di esse scalpitano amore e dolore, con una madre e un padre, con un’anziana e i suoi gatti, con due padri, con una vedova e i suoi figli, con una coppia di amici rimasti senza parenti. Qualsiasi cosa crei legami è famiglia. E questo spaventa molto gli ignoranti, perché ci vogliono grandissima sensibilità e intelligenza per accettare tutto ciò che è alternativa. L’odio che urla questa (poca e grottesca) gente del FamilyDay è solo il rigurgito terrorizzato di un branco di idioti plagiati dalla Chiesa, aggrappati alla disperazione di non potersi più sentire un po’ privilegiati e al sicuro. Perché ammettere l’amore per tutti non farà che svelare quanto marciume si nasconde nelle tantissime famiglie “tradizionali” italiane, in cui l’ignoranza spinge le donne a fare le schiave, gli uomini ad andare a mignotte convincendosi che non sia vero, i figli a crescere violenti e inquadrati. E loro lo sanno. Non vogliono altro che credersi ancora felici, furiosamente, con l’ausilio di una specie di sagra del patetico e striscioni medievali. Ma noi tutti sappiamo da dove veniamo, e in quante delle nostre famiglie “tradizionali” non c’è stato amore. I diritti civili saranno importanti perché spingeranno le persone a chiedersi davvero, con lucidità, se vogliono una famiglia e se sono pronti a dare amore, invece di crearsene una semplicemente solo perché lei è rimasta incinta a diciotto anni.
Io, dal canto mio, non credo che saprei prendermi cura di un figlio, perciò resto coi miei figliocci alternativi, i miei fiori, a cui do tutto l’amore che posso.
Dopo Cuore satellite hai già pensato ad un nuovo romanzo? Qualche anticipazione per le Kretine curiose…
Sto ricostruendo il mio romanzo di esordio, Vagamente suscettibili, pubblicato da una piccola casa editrice tre anni fa, per poterlo ripubblicare in autunno. Non vedo l’ora, perché sarà ambientato a Bologna, con tre personaggi gay ed etero davvero “KreTini”!
Arrivederci Amore:
Non sono felice.
In sostanza, non posso lamentarmi di niente, e questo mi toglie il sonno da mesi. Ho un ragazzo amorevole, un’amica che fa la pasta in casa, e un lavoro senza rogne perché faccio quello che mi piace. Quindi proprio non capisco cosa mi manchi per provare delle emozioni.
Forse dovrei lasciarle agire e basta. Un fatto più spontaneo, insomma, senza pensarci troppo. Senza un certificato a garantirmi che la felicità dimori in me. Ma pur facendo finta di essere un tipo che i giorni li assapora invece di sventrarli e analizzarli, non ne ricavo niente. Aspetto nervoso e non succede nulla. Nel mio petto non pulsa alcuna gioia. Sono una zombie Laura Palmer, e continuo a gironzolare nonostante il caso sia chiuso e il budget per attori esaurito.
Da Salerno a Capaccio ci vuole una mezz’oretta scarsa, senza traffico o maniaci che frenano di colpo per andare a prostitute. Quelle ormai si sporgono così tanto da non dover più costringere i clienti ad accostare. Son temerarie, le mignotte di oggi.
A Capaccio ci ho consumato l’infanzia, e probabilmente lì l’ho lasciata, secondo Lia. È un paese brutto che non ha più nulla di tipico. Poteva essere un villaggio di campagna, visto che vanno tanto fieri delle mozzarelle e dei carciofini, ma la gente del posto patisce un inviolabile bisogno di Hogan e aristocrazia campata in aria. Così ha cercato di renderlo una cittadina con la puzza sotto il naso, oltre a quella di sterco di vacca. Avendo fatto i conti con una personalità fermatasi agli anni Settanta, ci siamo ritrovati invasi da villoni color pesca da provincialotto coi soldi, il verde calpestato da hotel interstellari e il centro storico in rovina. I tedeschi che ancora ci raggiungono credono di vedere i templi di Paestum, e invece il treno li ferma a Baghdad e la signorina dell’infopoint è di cartapesta.
Mi dirigo verso una frazione che si chiama Licinella. Un gioiello di nome. È lì che da bambino vivevo.
Lo stereo dell’auto manda per la terza volta Satellite dei Colapesce. Mi culla, mentre il vento mi butta in faccia polline e profumo di carne alla brace, che viene da qualche cortile in cui ci sarà da festeggiare.
«Smettila di pensare a lui!» strilla all’improvviso il bambino accanto a me. Deraglio con uno strillo che non supererebbe i test per l’esercito e finisco in un fortunoso parcheggio sterrato. Inchiodo e sollevo una nube di polvere, che investe cinque vecchie impegnate nel cucito su una panchina di plastica. E non si vedono più.
Mi tengo stretto al volante e tremo. «Ma sei... completamente pazzo, maledetto stronzo?».
«Non puoi chiamarmi così!» ribatte guardandomi con odio, e sbatte le scarpette contro il cruscotto. «Non si dicono queste cose a un bambino! Lo ha detto anche Lia, non devi trattarmi male! Io merito un po’ di rispetto!».
«Tu non sei un bambino, tu sei un delinquente! Mi hai spaventato a morte, stavo guidando! Ci vuoi fare ammazzare tutti e due? Li vuoi risolvere così i problemi, facendoci schiantare contro un platano?».
«Questa è la mia mattina! Me l’avevi promessa!».
«Ho capito, Cristo santo! Infatti ci stiamo andando, vedi? Che altro vuoi?».
«Non devi pensare a lui, però, devi pensare a me e basta!» pretende con l’arroganza spocchiosa di un cicciottello con lo zainetto dei Gormiti. Incrocia le braccia e mette il broncio. Non so ancora quando l’ho educato così, ma me ne pento un sacco. Lo butterei volentieri a calci in culo fuori mentre sono a novanta all’ora, per vederlo rotolare dallo specchietto.
Sbuffo e rimetto in moto, lasciandomi alle spalle il brusio delle vecchie incazzate nere, prima che invochino i mariti muniti di zappe.
Il piccolo Paolo mi spia, tenendomi d’occhio le idee per essere certo che non pensi a Enzo. Non lo sopporta. Non lo sopportavo neanche io, prima di mettermici insieme. Ma è vero, dovrei restare concentrato sul bambino, altrimenti finisco per dilatare i tempi e per guarire ci impiegherò una vita. È il suo giorno speciale, questo. Gli avevo promesso che lo avrei riportato a quando avevamo cinque anni. Beh, lui ancora li ha.
Le case di Licinella sono tutte scartavetrate dai decenni, un po’ come la gente che ci avvizzisce male, e ci sono un sacco di cani randagi. Gruppetti ben assortiti di topastri arancioni e meticci di alano neri, e la gente sorride quando bighellonano in cerca di carezze, gli lancia gli avanzi dei cannelloni, finché un giorno non azzannano alla testa un ragazzino e tutti incolpano le autorità del randagismo.
Qui, ormai, ci vivono solo quelli con la licenza elementare che portano il camion, che hanno quel pugno di attività storiche tipo il tabacchino con proprio tutte le marche di sigarette, o che parcheggiano la moglie casalinga in uno dei parchi per poi lavorare fuori zona e trombare alla grande con le russe. È un posto tranquillo, dalla tipica sonnolenza di provincia, con tanti pini e anziani trascurati che si fanno la briscola. I rari giovani spacciano oppure fuggono a diciott’anni per andare nel mondo vero a fare i commessi.
Il mare è oltre la pineta alla mia destra, ma è così discreto che si sente solo nelle notti più quiete e senza colpi di pistola.
La meta è in fondo alla strada principale che spacca in due il borgo, dove sono rimaste le mie parti buone del cervello, a quanto pare. Stiamo andando a riprenderle. Lì ci sono due parchi rattristati da recinzioni alte, con dentro delle file di condomini dall’aspetto anonimo, che all’epoca mi sembravano sgargianti, e questo non è cambiato per il piccolo Paolo. Lo sbircio e lui sta pensando la stessa cosa. È alquanto euforico e saltella sul posto. Io non saltello.
«Lia diceva che dovevo portarti qui. Che ti farà bene». «Lia aveva sempre ragione» risponde all’istante, e alzo gli occhi al cielo. «Siamo arrivati o no?».
«Madonna, quanto rompi. Non possiamo fare tardi, che ho i tulipani da mettere in vetrina».
«Non m’interessa dei tuoi tulipani. Voglio vedere le rane!».
«Attento a non cadere, o potresti annegare...».
«Tanto si tocca».
M’infilo nello spiazzo e ci siamo. Uh, che gioia. Non c’è nessuno perché è mercoledì mattina, e la gente con la salute mentale a posto lavora, i disoccupati dormono, e i bambini sono all’asilo torturati a morte dai pizzicotti delle suore. Un piccolo fazzoletto verde abbraccia un secondo piazzale di ghiaia, davanti alla gigantesca chiesa marrone che non c’entra niente col resto.
Ai lati troneggiano i due parchi. Il parco Sereno, sulla sinistra, e il parco Celeste, dove siamo cresciuti, sulla destra. Noi bambini del parco Celeste facevamo la guerra a quelli del parco Sereno. Non mi ricordo perché, ma eravamo molto agguerriti e organizzati, con tattiche di spionaggio, trappole studiate, e ogni parco aveva un cugino arma segreta delle medie da spedire per degli schiaffoni a sorpresa nelle situazioni di crisi.
Conosco a memoria ogni cosa. Ci vengo comunque, anche se di rado, per salutare le mie cugine, con cui sono cresciuto. Nel parco Celeste ci vive un fratello di mio padre, lo zio Francesco.
Rimango qualche istante in auto a osservare il prato di violette attraverso il finestrino, e mi sento un po’ strano e obbligato a essere qui. Detesto le violette, poi. Sono i tipici fiori delle aiuole, così scontati. Già me li vedo, gli impiegati bietoloni del comune a scegliere la varietà per le aiuole pubbliche, e tutti a borbottare: ma è ovvio, violette! Le violette rappresentano un sacco delle cose che non vanno, in questo paese.
Mi giro verso il sedile accanto e il piccolo Paolo non c’è più.
«Ma che...? Fantastico».
Scendo senza fretta, col malessere che mi punge come la previsione di una prova faticosa. Non ne so il motivo, cos’è che riesuma in me questo paesello. Il piccolo Paolo dovrebbe riempirmi di felicità perché l’ho accontentato, ci teneva molto a ritornare alla vecchia casa. Dovrei già rimettere in moto piacevoli sketch mentali che alleggeriscano il mio corpo in tensione, e invece qualcosa non quadra. Non sento che fastidio, chiusura e noia.
«Adesso dove sei finito?» mormoro, ma lui non risponde. «Perché sei scappato? Sto facendo come volevi».
Passeggio lungo il prato invaso dalla camomilla selvatica e contemplo l’enorme chiesa. È tamarra e non c’è da sorprendersi, gli indigeni locali sfornano sempre idee simili. Il gusto per l’orrido, qui, è lo stesso che spinge le donne a infilare i jeans attillati negli stivali bianchi da amazzone, e gli uomini a installare targhette “juventini in casa” sui cancelli. La chiesa è un edificio di un legno impressionante, quando intorno domina il cemento sconsolato, e così sfacciatamente nuova, quando intorno tutto ammuffisce nella miseria da almeno trent’anni identici.
La curano parecchio, la chiesa, questi cattolici, anziché curare le loro vite. Le aiuole splendono, i due ulivi vicino agli scaloni son più floridi che in un’azienda di extra vergine, e i portici di marmo sono lucidi perché le credenti fanno volontariato con le pulizie, ma non hanno la minima idea di dove siano i loro figli, in questo preciso momento. Aiutassero mai un barbone.
Comunque, la chiesa non m’interessa neanche un po’. Non c’era quando io e il piccolo Paolo avevamo cinque anni, esiste solo da poco tempo. Lì, al suo posto, si dipanava una prateria punteggiata di papaveri, dove noi bambini giocavamo a rincorrerci, ad acchiappare grilli, ad arrampicarci sui massi che la ditta edile aveva abbandonato dopo il fallimento. Ci massacravamo le ginocchia ogni giorno e le ore non avevano alcuna autorità su di noi. Quanta serenità si accumulava, da bimbi. Tutto aveva un senso disimpegnato, una ragione empirica per uscire di casa, non limitata a una carriera o alle bollette del gas da pagare o all’elemosina di attenzioni.
Giro intorno all’edificio, indagando la zona per la sua nuova diversità. Se il davanti è del tutto riadattato dall’uomo e dalle sue violette, oltre la chiesa persiste il degrado, un altro erede del mio meridione. Il davanti per apparire, il dietro per nascondere il marcio. Ma in realtà di marcio non c’è un bel niente. Anzi, c’è il “così come deve essere”. Selvatico. Siepi di borragine ai piedi della chiesa, moltitudini di tarassachi su cui soffio passandoci accanto, serpentelli di rovi spinati che tirano i jeans per richiamarmi. Canneti.
Quando eravamo bambini, i canneti erano altissimi e piantonavano due pozzi pieni d’acqua con le griglie arrugginite. C’erano le rane e dei pesciolini, dentro, che noi catturavamo con delle canne da pesca improvvisate, fatte di nailon e ami rubati ai papà con la passione per la pesca.
Li cerco, ma ne trovo solo uno, prosciugato e farcito d’ortica.
«Paolo? Paolo, ci sei o no? Questa cosa del venire qui è per te, non per me!».
Mi soffermo per ascoltare le sue emozioni sempre prorompenti, e invece nulla. Aveva scalciato tanto per venire, e adesso fa il prezioso. Pensavo di renderlo entusiasta, invece non è mai contento di me o di come sta andando. Mi sento inutile, come quando il gruppo supera l’esame di guida e tu no, anche se dicevano “e che ci vuole”. Continua a farmi perdere la rotta, il bambino, e forse ne gode.
Mi sporgo sul pozzo, scoprendo la stessa ruggine di vent’anni prima. Si sentono i grilli, ma pure le rane, in effetti. Vuol dire che l’altro pozzo esiste ancora, anche se il canale di pietra che collegava entrambi è stato rimosso. I fasci selvatici così alti mi impediscono di spingermi oltre per accertarmene. Noi bambini avevamo spaccato con dei mattoni un punto fragile del canale, causando così una cascata e un nostro piccolo laghetto per giocare ai pirati. Lo difendevamo con tante battaglie dai bambini del parco Sereno. Ci davamo perfino il cambio per non lasciarlo mai. Era la nostra conquista. Eppure, un giorno che non mi ricordo, nessuno lo ha più difeso. Abbiamo dimenticato il laghetto, credo senza neppure avvertirlo, chiedergli scusa, dargli qualche falsa promessa di una visita ogni tanto. Non ci siamo tornati e basta.
Prima di scendere dal pozzo trovo una pallina di plastica dura, verde chiaro, spaccata come me. Me la porto dietro e per sicurezza strappo anche una radice di borragine, da ripiantare poi a casa per portarmi dietro quanto più Licinella possibile.
Ripercorro il muretto di cemento che separa questo prato incolto dal parco Celeste, tastando il muschio e le formiche. Cerco il punto leggendario in cui piegammo la recinzione di ferro sottile sul muretto, che ci permetteva di scavalcare la prigione e sfociare gioiosamente nella prateria. Ed eccolo, ancora lì, dietro agli oleandri, ancora curvato. Nessuno si è mai preso la briga di badare alla recinzione, ripararla, per omaggiare l’importanza che si merita e che ebbe per tutti noi.
Ogni cosa è familiare in modo intenso. Non è passato un giorno, non sono passato di un giorno. Rimasto qui ad aspettarmi, e finalmente tornato a ricordarmi. Ma ora non mi trovo comunque. Nonostante l’ansia della ricerca, continuo a non rispondermi.
Girovago per i palazzi del parco. I balconi blu sono sgretolati, forse ristrutturare costa troppo. Vivevo al primo piano del secondo palazzo. Quando ero bambino, papà faceva il barista tutto il giorno e anche un po’ la notte, e mamma lo attendeva qui senza niente da fare. Papà parcheggiava il suo maggiolone metallizzato al posto numero 3. Giocavo a saltare sul cofano e lo avevo deformato.
Guardo in alto, le rondini continuano ad approfittarsi dei tettucci per i loro nidi, ma una volta erano tantissime e cagavano sulle auto e sui vestiti stesi, e le signore del parco Celeste rompevano i nidi con le scope. Noi bambini riscattavamo le stragi, perché in primavera cadevano sempre i primi nati di rondinelle e li accudivamo. O facevamo finta, visto che ci morivano tra le mani sudate in poche ore.
Chissà dove sono i miei coetanei, con cui si giocava a nascondino nei portoni e nei garage. Come spendono questa mattina, mentre io la butto a rivangare. Chissà se sono in difficoltà come me o non hanno alcun problema a essere ventisettenni. Se sono felici o almeno fingono bene.
Quando ero bambino e dovevo già dormire, sorpresi mia madre nella delusione, intenta a lavorare a maglia con due lacrime che non mi ha mai spiegato, in un angolo di cucina illuminato a stento. Non mi aveva sentito perché avevo i piedini sul pavimento e le pantofole lasciate sotto al letto. Lei, per riparare al danno di avermi turbato nel vederla piangere senza motivo, mi insegnò come si sorride per finta, così che tutto torni a posto. Mi disse che se gli altri non sospettano un tuo dolore, allora quel dolore non esiste.
Io non ci riesco più, a fingere.
Trovo una bandana a quadri rossi e bianchi tra i miei piedi, sporca di terra e lisa, e la porto con me assieme alla palla e alla pianta. Il piccolo Paolo doveva essere la mia bussola e invece mi ha costretto a vagare. Una volta in macchina, stringo forte il volante ma non metto in moto.
«Sono venuto... fin qui... per quale fottuto motivo?». Mi agito e sbatacchio la macchina. «Dove sei, piccolo lord del cazzo? Che cosa vuoi da me, eh? Perché sei sparito?».
Una signora con la peluria sotto il naso e la spesa in braccio mi passa davanti, spia dal finestrino e si spaventa. Di che ha paura, se è già abituata al suo riflesso?
«Ho fatto tutto questo per te! Perché mi ripaghi così? Che cosa vuoi da me? Mi stai punendo! Mi stai ossessionando, io non sono più felice! E te lo permetto! Te lo permetto perché Lia diceva che non devo essere severo! Ma che cosa ti ho fatto di così orribile? Perché non posso essere come gli altri? Perché gli altri si godono la vita e io devo... pensare a te?».
Non si degna di rispondere neanche a una delle domande. Torno a Salerno esausto e mando a fanculo anche i tulipani.
In sostanza, non posso lamentarmi di niente, e questo mi toglie il sonno da mesi. Ho un ragazzo amorevole, un’amica che fa la pasta in casa, e un lavoro senza rogne perché faccio quello che mi piace. Quindi proprio non capisco cosa mi manchi per provare delle emozioni.
Forse dovrei lasciarle agire e basta. Un fatto più spontaneo, insomma, senza pensarci troppo. Senza un certificato a garantirmi che la felicità dimori in me. Ma pur facendo finta di essere un tipo che i giorni li assapora invece di sventrarli e analizzarli, non ne ricavo niente. Aspetto nervoso e non succede nulla. Nel mio petto non pulsa alcuna gioia. Sono una zombie Laura Palmer, e continuo a gironzolare nonostante il caso sia chiuso e il budget per attori esaurito.
Da Salerno a Capaccio ci vuole una mezz’oretta scarsa, senza traffico o maniaci che frenano di colpo per andare a prostitute. Quelle ormai si sporgono così tanto da non dover più costringere i clienti ad accostare. Son temerarie, le mignotte di oggi.
A Capaccio ci ho consumato l’infanzia, e probabilmente lì l’ho lasciata, secondo Lia. È un paese brutto che non ha più nulla di tipico. Poteva essere un villaggio di campagna, visto che vanno tanto fieri delle mozzarelle e dei carciofini, ma la gente del posto patisce un inviolabile bisogno di Hogan e aristocrazia campata in aria. Così ha cercato di renderlo una cittadina con la puzza sotto il naso, oltre a quella di sterco di vacca. Avendo fatto i conti con una personalità fermatasi agli anni Settanta, ci siamo ritrovati invasi da villoni color pesca da provincialotto coi soldi, il verde calpestato da hotel interstellari e il centro storico in rovina. I tedeschi che ancora ci raggiungono credono di vedere i templi di Paestum, e invece il treno li ferma a Baghdad e la signorina dell’infopoint è di cartapesta.
Mi dirigo verso una frazione che si chiama Licinella. Un gioiello di nome. È lì che da bambino vivevo.
Lo stereo dell’auto manda per la terza volta Satellite dei Colapesce. Mi culla, mentre il vento mi butta in faccia polline e profumo di carne alla brace, che viene da qualche cortile in cui ci sarà da festeggiare.
«Smettila di pensare a lui!» strilla all’improvviso il bambino accanto a me. Deraglio con uno strillo che non supererebbe i test per l’esercito e finisco in un fortunoso parcheggio sterrato. Inchiodo e sollevo una nube di polvere, che investe cinque vecchie impegnate nel cucito su una panchina di plastica. E non si vedono più.
Mi tengo stretto al volante e tremo. «Ma sei... completamente pazzo, maledetto stronzo?».
«Non puoi chiamarmi così!» ribatte guardandomi con odio, e sbatte le scarpette contro il cruscotto. «Non si dicono queste cose a un bambino! Lo ha detto anche Lia, non devi trattarmi male! Io merito un po’ di rispetto!».
«Tu non sei un bambino, tu sei un delinquente! Mi hai spaventato a morte, stavo guidando! Ci vuoi fare ammazzare tutti e due? Li vuoi risolvere così i problemi, facendoci schiantare contro un platano?».
«Questa è la mia mattina! Me l’avevi promessa!».
«Ho capito, Cristo santo! Infatti ci stiamo andando, vedi? Che altro vuoi?».
«Non devi pensare a lui, però, devi pensare a me e basta!» pretende con l’arroganza spocchiosa di un cicciottello con lo zainetto dei Gormiti. Incrocia le braccia e mette il broncio. Non so ancora quando l’ho educato così, ma me ne pento un sacco. Lo butterei volentieri a calci in culo fuori mentre sono a novanta all’ora, per vederlo rotolare dallo specchietto.
Sbuffo e rimetto in moto, lasciandomi alle spalle il brusio delle vecchie incazzate nere, prima che invochino i mariti muniti di zappe.
Il piccolo Paolo mi spia, tenendomi d’occhio le idee per essere certo che non pensi a Enzo. Non lo sopporta. Non lo sopportavo neanche io, prima di mettermici insieme. Ma è vero, dovrei restare concentrato sul bambino, altrimenti finisco per dilatare i tempi e per guarire ci impiegherò una vita. È il suo giorno speciale, questo. Gli avevo promesso che lo avrei riportato a quando avevamo cinque anni. Beh, lui ancora li ha.
Le case di Licinella sono tutte scartavetrate dai decenni, un po’ come la gente che ci avvizzisce male, e ci sono un sacco di cani randagi. Gruppetti ben assortiti di topastri arancioni e meticci di alano neri, e la gente sorride quando bighellonano in cerca di carezze, gli lancia gli avanzi dei cannelloni, finché un giorno non azzannano alla testa un ragazzino e tutti incolpano le autorità del randagismo.
Qui, ormai, ci vivono solo quelli con la licenza elementare che portano il camion, che hanno quel pugno di attività storiche tipo il tabacchino con proprio tutte le marche di sigarette, o che parcheggiano la moglie casalinga in uno dei parchi per poi lavorare fuori zona e trombare alla grande con le russe. È un posto tranquillo, dalla tipica sonnolenza di provincia, con tanti pini e anziani trascurati che si fanno la briscola. I rari giovani spacciano oppure fuggono a diciott’anni per andare nel mondo vero a fare i commessi.
Il mare è oltre la pineta alla mia destra, ma è così discreto che si sente solo nelle notti più quiete e senza colpi di pistola.
La meta è in fondo alla strada principale che spacca in due il borgo, dove sono rimaste le mie parti buone del cervello, a quanto pare. Stiamo andando a riprenderle. Lì ci sono due parchi rattristati da recinzioni alte, con dentro delle file di condomini dall’aspetto anonimo, che all’epoca mi sembravano sgargianti, e questo non è cambiato per il piccolo Paolo. Lo sbircio e lui sta pensando la stessa cosa. È alquanto euforico e saltella sul posto. Io non saltello.
«Lia diceva che dovevo portarti qui. Che ti farà bene». «Lia aveva sempre ragione» risponde all’istante, e alzo gli occhi al cielo. «Siamo arrivati o no?».
«Madonna, quanto rompi. Non possiamo fare tardi, che ho i tulipani da mettere in vetrina».
«Non m’interessa dei tuoi tulipani. Voglio vedere le rane!».
«Attento a non cadere, o potresti annegare...».
«Tanto si tocca».
M’infilo nello spiazzo e ci siamo. Uh, che gioia. Non c’è nessuno perché è mercoledì mattina, e la gente con la salute mentale a posto lavora, i disoccupati dormono, e i bambini sono all’asilo torturati a morte dai pizzicotti delle suore. Un piccolo fazzoletto verde abbraccia un secondo piazzale di ghiaia, davanti alla gigantesca chiesa marrone che non c’entra niente col resto.
Ai lati troneggiano i due parchi. Il parco Sereno, sulla sinistra, e il parco Celeste, dove siamo cresciuti, sulla destra. Noi bambini del parco Celeste facevamo la guerra a quelli del parco Sereno. Non mi ricordo perché, ma eravamo molto agguerriti e organizzati, con tattiche di spionaggio, trappole studiate, e ogni parco aveva un cugino arma segreta delle medie da spedire per degli schiaffoni a sorpresa nelle situazioni di crisi.
Conosco a memoria ogni cosa. Ci vengo comunque, anche se di rado, per salutare le mie cugine, con cui sono cresciuto. Nel parco Celeste ci vive un fratello di mio padre, lo zio Francesco.
Rimango qualche istante in auto a osservare il prato di violette attraverso il finestrino, e mi sento un po’ strano e obbligato a essere qui. Detesto le violette, poi. Sono i tipici fiori delle aiuole, così scontati. Già me li vedo, gli impiegati bietoloni del comune a scegliere la varietà per le aiuole pubbliche, e tutti a borbottare: ma è ovvio, violette! Le violette rappresentano un sacco delle cose che non vanno, in questo paese.
Mi giro verso il sedile accanto e il piccolo Paolo non c’è più.
«Ma che...? Fantastico».
Scendo senza fretta, col malessere che mi punge come la previsione di una prova faticosa. Non ne so il motivo, cos’è che riesuma in me questo paesello. Il piccolo Paolo dovrebbe riempirmi di felicità perché l’ho accontentato, ci teneva molto a ritornare alla vecchia casa. Dovrei già rimettere in moto piacevoli sketch mentali che alleggeriscano il mio corpo in tensione, e invece qualcosa non quadra. Non sento che fastidio, chiusura e noia.
«Adesso dove sei finito?» mormoro, ma lui non risponde. «Perché sei scappato? Sto facendo come volevi».
Passeggio lungo il prato invaso dalla camomilla selvatica e contemplo l’enorme chiesa. È tamarra e non c’è da sorprendersi, gli indigeni locali sfornano sempre idee simili. Il gusto per l’orrido, qui, è lo stesso che spinge le donne a infilare i jeans attillati negli stivali bianchi da amazzone, e gli uomini a installare targhette “juventini in casa” sui cancelli. La chiesa è un edificio di un legno impressionante, quando intorno domina il cemento sconsolato, e così sfacciatamente nuova, quando intorno tutto ammuffisce nella miseria da almeno trent’anni identici.
La curano parecchio, la chiesa, questi cattolici, anziché curare le loro vite. Le aiuole splendono, i due ulivi vicino agli scaloni son più floridi che in un’azienda di extra vergine, e i portici di marmo sono lucidi perché le credenti fanno volontariato con le pulizie, ma non hanno la minima idea di dove siano i loro figli, in questo preciso momento. Aiutassero mai un barbone.
Comunque, la chiesa non m’interessa neanche un po’. Non c’era quando io e il piccolo Paolo avevamo cinque anni, esiste solo da poco tempo. Lì, al suo posto, si dipanava una prateria punteggiata di papaveri, dove noi bambini giocavamo a rincorrerci, ad acchiappare grilli, ad arrampicarci sui massi che la ditta edile aveva abbandonato dopo il fallimento. Ci massacravamo le ginocchia ogni giorno e le ore non avevano alcuna autorità su di noi. Quanta serenità si accumulava, da bimbi. Tutto aveva un senso disimpegnato, una ragione empirica per uscire di casa, non limitata a una carriera o alle bollette del gas da pagare o all’elemosina di attenzioni.
Giro intorno all’edificio, indagando la zona per la sua nuova diversità. Se il davanti è del tutto riadattato dall’uomo e dalle sue violette, oltre la chiesa persiste il degrado, un altro erede del mio meridione. Il davanti per apparire, il dietro per nascondere il marcio. Ma in realtà di marcio non c’è un bel niente. Anzi, c’è il “così come deve essere”. Selvatico. Siepi di borragine ai piedi della chiesa, moltitudini di tarassachi su cui soffio passandoci accanto, serpentelli di rovi spinati che tirano i jeans per richiamarmi. Canneti.
Quando eravamo bambini, i canneti erano altissimi e piantonavano due pozzi pieni d’acqua con le griglie arrugginite. C’erano le rane e dei pesciolini, dentro, che noi catturavamo con delle canne da pesca improvvisate, fatte di nailon e ami rubati ai papà con la passione per la pesca.
Li cerco, ma ne trovo solo uno, prosciugato e farcito d’ortica.
«Paolo? Paolo, ci sei o no? Questa cosa del venire qui è per te, non per me!».
Mi soffermo per ascoltare le sue emozioni sempre prorompenti, e invece nulla. Aveva scalciato tanto per venire, e adesso fa il prezioso. Pensavo di renderlo entusiasta, invece non è mai contento di me o di come sta andando. Mi sento inutile, come quando il gruppo supera l’esame di guida e tu no, anche se dicevano “e che ci vuole”. Continua a farmi perdere la rotta, il bambino, e forse ne gode.
Mi sporgo sul pozzo, scoprendo la stessa ruggine di vent’anni prima. Si sentono i grilli, ma pure le rane, in effetti. Vuol dire che l’altro pozzo esiste ancora, anche se il canale di pietra che collegava entrambi è stato rimosso. I fasci selvatici così alti mi impediscono di spingermi oltre per accertarmene. Noi bambini avevamo spaccato con dei mattoni un punto fragile del canale, causando così una cascata e un nostro piccolo laghetto per giocare ai pirati. Lo difendevamo con tante battaglie dai bambini del parco Sereno. Ci davamo perfino il cambio per non lasciarlo mai. Era la nostra conquista. Eppure, un giorno che non mi ricordo, nessuno lo ha più difeso. Abbiamo dimenticato il laghetto, credo senza neppure avvertirlo, chiedergli scusa, dargli qualche falsa promessa di una visita ogni tanto. Non ci siamo tornati e basta.
Prima di scendere dal pozzo trovo una pallina di plastica dura, verde chiaro, spaccata come me. Me la porto dietro e per sicurezza strappo anche una radice di borragine, da ripiantare poi a casa per portarmi dietro quanto più Licinella possibile.
Ripercorro il muretto di cemento che separa questo prato incolto dal parco Celeste, tastando il muschio e le formiche. Cerco il punto leggendario in cui piegammo la recinzione di ferro sottile sul muretto, che ci permetteva di scavalcare la prigione e sfociare gioiosamente nella prateria. Ed eccolo, ancora lì, dietro agli oleandri, ancora curvato. Nessuno si è mai preso la briga di badare alla recinzione, ripararla, per omaggiare l’importanza che si merita e che ebbe per tutti noi.
Ogni cosa è familiare in modo intenso. Non è passato un giorno, non sono passato di un giorno. Rimasto qui ad aspettarmi, e finalmente tornato a ricordarmi. Ma ora non mi trovo comunque. Nonostante l’ansia della ricerca, continuo a non rispondermi.
Girovago per i palazzi del parco. I balconi blu sono sgretolati, forse ristrutturare costa troppo. Vivevo al primo piano del secondo palazzo. Quando ero bambino, papà faceva il barista tutto il giorno e anche un po’ la notte, e mamma lo attendeva qui senza niente da fare. Papà parcheggiava il suo maggiolone metallizzato al posto numero 3. Giocavo a saltare sul cofano e lo avevo deformato.
Guardo in alto, le rondini continuano ad approfittarsi dei tettucci per i loro nidi, ma una volta erano tantissime e cagavano sulle auto e sui vestiti stesi, e le signore del parco Celeste rompevano i nidi con le scope. Noi bambini riscattavamo le stragi, perché in primavera cadevano sempre i primi nati di rondinelle e li accudivamo. O facevamo finta, visto che ci morivano tra le mani sudate in poche ore.
Chissà dove sono i miei coetanei, con cui si giocava a nascondino nei portoni e nei garage. Come spendono questa mattina, mentre io la butto a rivangare. Chissà se sono in difficoltà come me o non hanno alcun problema a essere ventisettenni. Se sono felici o almeno fingono bene.
Quando ero bambino e dovevo già dormire, sorpresi mia madre nella delusione, intenta a lavorare a maglia con due lacrime che non mi ha mai spiegato, in un angolo di cucina illuminato a stento. Non mi aveva sentito perché avevo i piedini sul pavimento e le pantofole lasciate sotto al letto. Lei, per riparare al danno di avermi turbato nel vederla piangere senza motivo, mi insegnò come si sorride per finta, così che tutto torni a posto. Mi disse che se gli altri non sospettano un tuo dolore, allora quel dolore non esiste.
Io non ci riesco più, a fingere.
Trovo una bandana a quadri rossi e bianchi tra i miei piedi, sporca di terra e lisa, e la porto con me assieme alla palla e alla pianta. Il piccolo Paolo doveva essere la mia bussola e invece mi ha costretto a vagare. Una volta in macchina, stringo forte il volante ma non metto in moto.
«Sono venuto... fin qui... per quale fottuto motivo?». Mi agito e sbatacchio la macchina. «Dove sei, piccolo lord del cazzo? Che cosa vuoi da me, eh? Perché sei sparito?».
Una signora con la peluria sotto il naso e la spesa in braccio mi passa davanti, spia dal finestrino e si spaventa. Di che ha paura, se è già abituata al suo riflesso?
«Ho fatto tutto questo per te! Perché mi ripaghi così? Che cosa vuoi da me? Mi stai punendo! Mi stai ossessionando, io non sono più felice! E te lo permetto! Te lo permetto perché Lia diceva che non devo essere severo! Ma che cosa ti ho fatto di così orribile? Perché non posso essere come gli altri? Perché gli altri si godono la vita e io devo... pensare a te?».
Non si degna di rispondere neanche a una delle domande. Torno a Salerno esausto e mando a fanculo anche i tulipani.
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