http://www.internazionale.it/opinione/chiara-lalli/2015/11/10/maternita-surrogata-donne
Da più parti ci si interroga sulla maternità surrogata (o surrogacy, o gestazione per altri) e circola anche in Italia l’appello internazionaleStop surrogacy now lanciato da alcune femministe per vietare questa pratica.
Troviamo sospetto che la discussione in Italia – certamente importante, quindi da fare – sia scatenata nel momento in cui si discute di unioni civili per le coppie omosessuali ed è sotto attacco la stepchild adoption. Come abbiamo già scritto, invece di fare ordine si rischia di partecipare alla confusione e all’uso dello spettro della maternità surrogata per impedire la possibilità di adozione della figlia o del figlio del partner dello stesso sesso. È indispensabile che le due questioni vengano affrontate separatamente, non solo a beneficio di una discussione laica sulle unioni civili, ma anche per sottrarre una questione estremamente delicata come la gestazione per altri a una narrazione fuorviante, quella che vede protagonista esclusiva la coppia gay maschile in cerca di una genitorialità biologica. Questa configurazione è in realtà minoritaria, e così come i diritti delle coppie eterosessuali non vengono in nessun modo messi in discussione a partire dall’eventualità che possano accedere alla surrogacy, così non ha alcun senso colpire per questa ragione i diritti delle coppie omosessuali. Ne deriverebbe una violazione dei diritti di tutti, in primo luogo dei minori.
Se invece, sgombrato il campo dalle implicazioni per la legge sulle unioni civili, proviamo a guardare al fenomeno della surrogacy in tutta la sua complessità, proviamo ad affrontare la questione da tre punti di vista: il benessere della bambina/del bambino, la libertà delle donne “portatrici”, lo sfruttamento istituzionalizzato del corpo femminile a scopo riproduttivo. Ognuna di queste prospettive è per noi piena di interrogativi e merita una trattazione complessa. Ci limitiamo qui a porre delle domande, a beneficio – speriamo – della discussione.
Bambina/o. Il femminismo ci ha insegnato a riconoscere il primato femminile nella procreazione e il particolare legame che si instaura tra madre e figlio (parola incredibilmente usata quasi sempre al maschile nell’appello). Ma tra questo e l’impossibilità di riconoscere il valore della genitorialità fuori della procreazione ce ne passa. Siamo sicure che aiuti a tutelare i bambini fare del legame biologico la misura di tutto, che sia questo il modo migliore di aver cura della differenza sessuale? Non c’è attaccamento, relazioni significative, genitorialità sessuata oltre il primo legame con chi ci ha partorito? L’esperienza di molte e felici storie di adozione, per esempio, non racconta una realtà diversa?
Libertà delle donne. Scrivono Agacinski e le altre: “La maternità surrogata spesso è basata sullo sfruttamento delle donne più povere. […] Queste transazioni inique implicano un consenso da parte di donne poco informate, o del tutto disinformate, una scarsa remunerazione, una coercizione, una insufficienza di assistenza medica nonché gravi rischi per la salute, a corto e lungo termine, delle donne che accettano la gestazione per altri”. Siamo sicure che tutte le esperienze di gestazione per altri siano uguali? Abbiamo ascoltato le donne che dichiarano di averlo scelto e di non averlo fatto per soldi? Ci interessa l’esperienza? Nessuna lo può scegliere liberamente? Se lo fa è una povera inconsapevole che non ha il senso della propria corporeità e integrità? La gestazione altruistica, da alcune chiamate terribilmente “utero solidale”, riducendo dunque la prestazione all’utero, è una finzione? Prima di condannare ci piacerebbe ascoltare e capire. L’appello Stop surrogacy now chiede ai governi di lavorare insieme per fermare questa pratica. La soluzione è dunque farla diventare dovunque reato?
Sfruttamento del corpo delle donne. “Anche se non c’è scambio di denaro (la cosiddetta gestazione non remunerata o ‘altruistica’), ogni pratica che espone le donne e i bambini a tali rischi deve essere vietata”, afferma l’appello. Ma se togliamo di mezzo il denaro, fuori da rapporti mercantili, la maternità surrogata è sempre sfruttamento o è possibile un punto d’incontro tra i desideri di alcune/i e la disponibilità di una donna a portare avanti una gravidanza per loro? Nessuno pensa che la genitorialità biologica sia un diritto, ma si può rifiutare la grammatica dei diritti perché è un linguaggio individualista, che non dà conto delle relazioni e non riesce ad esprimere la complessità di queste esperienze, perché bisogna avere coscienza del limite. Altra cosa è farne derivare che siccome non è un diritto chi non può avere figli biologicamente se ne faccia una ragione e adotti i bambini già nati. Se così fosse, non dovremmo vietare tutte le tecniche di procreazione medicalmente assistita, che sono invasive soprattutto per le donne? E non rischiamo di affidare alla legge l’affermazione del dominio della naturalità, con tutte le ricadute negative che questo inevitabilmente avrebbe nel campo dei diritti civili, specialmente per le donne?
https://femministerie.wordpress.com/2015/11/05/maternita-surrogata-le-nostre-domande/
DONNE DI FATTO
Femminismo e Chiesa: io non faccio alleanze
Le femministe de “il corpo è tuo quando lo decido io”, che in Italia coincidono con il femminismo della differenza, hanno intrapreso da un po’ una crociata pericolosamente normativa in nome di tutte le donne. Dall’alto della loro visione misticheggiantepropongono di “stare dalla parte dell’etica cristiana” perché laChiesa sarebbe l’alleata ideale contro le logiche del mercato.
Mi chiedo a quale Chiesa si riferiscano costoro: la stessa che mi chiede di pentirmi se ho abortito? La stessa al cui interno vari membri pensano che gli omosessuali siano dei malati da curare il cui comportamento va corretto in nome di una battaglia contro il “Gender”? Sono gli stessi che parlano di “dittatura omosessualista”? Quelli che sentinellando in piedi in varie città sono ben felici di godere della censura di libri per bambini in cui si parla di rispetto per i vari generi? È di quella chiesa che parliamo?
Ma si può essere femministe ed essere anche dalla parte di chi svolge una politica antiabortista e omofoba? Se Terragni e Muraro, che potete leggere in un recente articolo su L’Avvenire, vogliono seguirel’idea di un “dialogo” tra Chiesa e femminismo facciano pure, ma non in mio nome. Con la Chiesa discuto solo per apprendere/raccontare la sua/mia diversità, perché se il punto di incontro tra Chiesa e femminismo è il fatto che l’una e le altre vogliono impedire che le coppie gay possano sperare in una vita familiare che comprende i figli direi che non ci siamo.
Chi vuole seguire l’idea espressa dalla Muraro secondo cui “non si può avere tutto, ci sono dei limiti dovuti alla realtà delle cose. La coppia omosessuale maschile è una coppia sterile per natura. I tentativi passati di impiantare uteri nei loro corpi sono ridicoli e mostruosi. L’invidia dell’uomo, già nota alla psicanalisi, verso la fertilità femminile va analizzata e superata?”
È della stessa Muraro che a proposito di transgender ha parlato di travestitismo, mentre la Terragni ci avvisa della possibile scomparsa della donna, addirittura, giacché secondo lei vanno distinti i generi come “natura” crea.
È definitivamente contorto il ragionamento di queste femministe “storiche”, che ora hanno decisamente difficoltà a confrontarsi con altri femminismi dei quali si nega l’esistenza (sono tutt* fake di Eretica) o dei quali si banalizza il pensiero critico.
L’idea che queste femministe portano avanti è quella di negare alle donne libertà di scelta quando si parla di utero in affitto. D’altronde analogo ragionamento fanno sulla prostituzione. Sono tutte vittime, le donne che si prostituiscono, Amnesty che vuole decriminalizzare merita di essere offesa in ogni modo, e guai a parlare di sex workers che fanno quel mestiere per scelta.
Guai a dire che non vendono il corpo ma servizi sessuali. Così anche la faccenda dell’utero in affitto sta diventando una crociata santa, perché alla base di tutto c’è la negazione dell’autodeterminazione delle donne. Appunto, il corpo è tuo quando solo lo decido io.
Posso essere d’accordo sul fatto che certe scelte siano dettate dalla necessità di denaro, dalla difficoltà di esistere in un mondo dominato dal capitalismo, ma dove stanno queste femministe quando nelle aule parlamentari si votano riforme economiche che precarizzano chiunque? Chi ci riduce in stato di bisogno? Chi ha reso precaria la nostra vita? O davvero pensate che il capitalismo non si serva in primo luogo delle istituzioni e dei governi per imporre le proprie leggi?
Allora pregherei chi è vicina ai contesti istituzionali di lottare affinché tutt* possiamo essere liber* di scegliere a prescindere dal bisogno. Perché ad oggi si dovrà pensare che, a parte alcune privilegiate con l’idea borghese di salvare le donne povere da colonizzare con il nostro caritatevole pensiero vicino all’etica cristiana, tutte le altre, anzi tutte e tutti gli altri, accetteremo di lavorare per soldi, e non sempre ci capiterà di fare un lavoro che ci piace.
Eppure non c’è crociata in corso per salvare le donne dal badantaggio, dai ruoli di cura gratuiti in famiglia, dalla schiavitù nei campi in cui raccolgono pomodori e crepano per due euro all’ora, dalle fabbriche che licenziano e mandano chiunque in mezzo alla strada, dai lavori di commessa, cameriera, colf, pulitrice delle belle case altrui. Non c’è nessuna che ha in mente di salvarci dai lavori precari? Vogliamo parlare dei contratti di lavoro diventati tristi caricature di quel che con il sangue altri lavoratori avevano guadagnato? Perché chi dialoga con la Chiesa non le chiede di donare ai poveri i tesori che possiede, di darsi da fare per rendere le persone indipendenti economicamente?
Quello che penso in proposito è che io ho il diritto di vendere servizi sessuali se ne ho voglia, perché devo essere libera di scegliere cosa fare per emanciparmi dal bisogno. Le donne e gli uomini o le trans che scelgono di vendere servizi sessuali, quell* che lo fanno perché a loro piace o comunque lo trovano un lavoro assai migliore di tanti altri, hanno diritto di godere di eguali diritti esattamente come chiunque lavori in ogni altro settore. Le donne che vogliono prestare l’utero per dare un figlio ad una coppia gay devono poterlo fare, perché il ragionamento di chi dice che devono accontentarsi perché “sterili per natura” è discriminatorio di per sé. Che dire delle donne che non possono avere figli? Le definiamo sterili e le cacciamo via dal nostro bel mondo di madri riuscite? Non è forse per riparare a questa e ad altre questioni che abbiamo scelto di supportare la procreazione medicalmente assistita? Non è forse vero che si può impiantare un ovulo fecondato nell’utero di una sorella, madre, zia, amica, per avere un figlio? Non hanno diritto le amiche, le donne che ne hanno voglia, di prestare l’utero a una coppia che non può avere figli?
In Italia si discute ancora del diritto a poter adottare il figlio dell’altra o dell’altro quando in una coppia gay o lesbica un* dei due porta con se un figlio. L’Italia è stata sanzionata e condannata mille volte dall’Europa che ci vede come nazione omofoba che nega diritti a persone che vogliono rispetto per se, per le proprie famiglie, per i propri figli. Davvero vogliamo aggiungere anche le femministe alla schiera di persone che si scontrano con le persone gay, lesbiche, bisex, trans? Non in mio nome. Proprio no.
05giu2015
FRANCESCA DIANO INTERVISTA GITA ARAVAMUDAN
D In India sei una giornalista e scrittrice notissima, soprattutto per quanto riguarda questioni di genere. E a Bangalore sei stata una delle prime donne giornaliste. Come hai iniziato? Quando e perché (se mai esiste un perché) hai cominciato a scrivere?
R Scrivere mi è sempre piaciuto, fin da bambina. Presi la decisione di diventare giornalista quando ero all’università, al Mount Carmel College a Bangalore, e mi stavo laureando in Scienze Politiche e Letteratura Inglese. Ma non era una cosa facile, perché, alla fine degli anni ’60 i giornali non assumevano le donne. Dopo la laurea, quando iniziai a bussare alla porta di vari quotidiani chiedendo un lavoro, tutti mi rifiutarono per il solo motivo che ero una donna, anzi, una ragazza. Alla fine fui assunta come apprendista presso un importante quotidiano di Delhi, l’Hindustan Times. Per un po’ di tempo lavorai come redattrice interna e poi seguii un po’ la Cronaca. Però, una volta che il mio periodo di apprendistato si concluse, dovetti andarmene. Tornai a insegnare nella mia vecchia scuola, la St Joseph’s Convent a Kolar Gold Fields, dove vivevano ancora i miei genitori. E poi, dopo dell’altra grande fatica, fui assunta come cronista in un altro importante quotidiano, The Indian Express di Bangalore, che era la grande città più vicina. Avevo ventun anni ed ero la prima giornalista donna della città.
Ho iniziato come giornalista generica e coprivo qualunque argomento, dalle sfilate di moda alla nera, dai comizi elettorali al cinema. Dopo aver lavorato in questo campo per oltre dieci anni, lentamente cominciai a focalizzare la mia attenzione sulle questioni di genere. Dopo un po’ di tempo cominciai a tenere delle rubriche in cui me ne occupavo e mi specializzai in questo campo.
D Molti dei tuoi libri-inchiesta trattano argomenti molto drammatici, come l’infanticidio femminile o la maternità surrogata. Argomenti che rivelano la difficile situazione delle donne indiane, che non sono ancora in grado di liberarsi dalle catene e, allo stesso tempo, si trovano proiettate a gran velocità verso il futuro. Perché credi che sia così difficile per le donne – e non solo in India – farsi valere? Sembra che debbano tollerare una terribile pressione sociale perché ciò non avvenga.
R Ho scritto tre saggi e due romanzi. Essendo una giornalista, mi capita di imbattermi, nella vita reale, in storie veramente drammatiche e le ho riportate nei miei tre libri-inchiesta. Ma, così come in Disappearing Daughters ho scritto dell’aborto selettivo e delle morti a causa della dote, in Unbound: Indianwomen@work ho anche raccontato le storie, meno drammatiche ma più incoraggianti, di donne indiane che lavorano e di come si stiano svincolando dai ruoli tradizionali. Nel mio ultimo libro sulla maternità surrogata, Baby Makers, mi sono occupata dello sfruttamento delle donne che affittano il loro utero, ma ho anche voluto far notare le scelte indipendenti che compiono e i benefici che ne traggono. Sì, è difficile per le donne di tutto il mondo resistere alla pressione sociale che su di loro esercita una società patriarcale tradizionale. Però ho la sensazione che ci sia una sorta di rinascita. Sempre più donne ricevono un’istruzione e diventano indipendenti e stanno imparando a tracciarsi una propria strada. Ho definito questo fenomeno il modello femminile del successo. Non usano la violenza, ma stanno compiendo una rivoluzione silenziosa secondo le loro modalità.
D Nel tuo ultimo libro, Baby Makers. The story of Indian Surrogacy, tocchi un punto molto dolente, poiché pare che l’Occidente seguiti a sfruttare la povertà delle donne orientali, approfittando in questo modo di due fragilità: quella di essere povera e quella di essere donna. Vuoi parlare di questo libro?
R In realtà Baby Makers non riguarda lo sfruttamento delle donne indiane povere. Dal momento che sono essenzialmente una giornalista, mi sono interessata di tutta l’industria che ruota attorno alla maternità surrogata e alla fertilità e al modo in cui, in breve tempo, questa si sia trasformata in una miniera d’oro. Ho considerato la questione da ogni angolatura: quella dei genitori che vogliono avere dei bambini, quella dei medici, quella delle donatrici di ovuli, quella delle agenzie che procurano le madri surrogate e quella delle donne che affittano l’utero. Anche se il libro si basa su una ricerca meticolosa, ho usato uno stile di tipo narrativo, che i miei lettori hanno sempre molto apprezzato.
Ma, la cosa più importante, è che in Baby Makers non si esprimono giudizi moralisti. Non mi schiero da nessuna delle parti di coloro che fanno parte di questo business. Mi limito ad esporre i fatti così come sono. Sì, è vero, c’è una forma di sfruttamento, ma in India non sono solo famiglie occidentali che affittano uteri. Lo fanno anche delle famiglie indiane. Ed è un dato di fatto, una realtà della vita che, in ogni transazione commerciale, sono i ricchi a pagare i poveri per i servizi resi. In questo caso, affittano delle donne perché partoriscano i loro figli. In sé questo non è sfruttamento, dal momento che le donne lo fanno volontariamente, perché il denaro che guadagnano è loro utile. Lo sfruttamento avviene spesso da parte delle agenzie e degli intermediari e perfino da parte di alcuni medici ciarlatani che ingannano queste donne, oppure fanno delle cose che possono mettere in pericolo la loro salute o la loro stessa vita. Questi sfruttano tanto la loro ignoranza che la loro povertà.
D Nel tuo secondo romanzo, Colour of Gold, descrivi un luogo, la città di Kolar, considerata un tempo uno dei siti minerari per l’estrazione dell’oro più ricchi del mondo. Così come, in passato, era un paradiso dorato per i funzionari inglesi e anglo inglesi. La storia si svolge nell’arco di un secolo. Ma anche nel tuo primo romanzo l’azione si snoda attraverso molte generazioni. Qual è il tuo rapporto col passato e con il tempo in generale?
R Forse anche questo deriva dalla mia esperienza come giornalista. Quando ho scritto Colour of Gold avevo un’enorme quantità di informazioni su Kolar Gold Fields.[1] È in questa piccola città mineraria che sono cresciuta e mi sono sposata. Ma il fatto molto importante è che negli anni avevo scritto molti articoli su di essa. Per questo motivo avevo intervistato molte persone, visitato gli archivi governativi e raccolto materiale. Dunque, quando ho iniziato a scrivere questo libro, il materiale in mio possesso era così tanto che, per farcelo stare tutto, mi serviva una storia che si svolgesse nell’arco di molte generazioni! Così, anche se Colour of Gold narra la storia di KGF, non è un noioso documentario, ma un thriller avvolto nel mistero e dall’azione veloce, che pare abbia colpito l’immaginario dei miei lettori, dal momento che tutti loro me lo stanno confermando e sta avendo un grande successo!
Il mio primo romanzo è stato The Healing. Ho scelto un’ambientazione che mi è piuttosto familiare: una famiglia tamil brahmana estesa[2] che vive a Chennai, una città dell’India del Sud. I personaggi sono immaginari, così come gli avvenimenti. Ho cercato di mettere in luce il modo in cui, in una realtà così tradizionale, l’atteggiamento nei confronti delle donne è cambiato nel corso di trent’anni. Dunque, per la narrazione, mi serviva un arco di tempo maggiore.
Sono ormai quarant’anni che faccio la giornalista e quindi ho una ricca riserva di materiale a cui attingere. E penso anche che condensare il tempo dia una sorta di effetto tridimensionale alla storia.
D Che ostacoli hai trovato nel diventare una giornalista e una scrittrice femminista? E pensi che la tua posizione sia facile o no nell’India di oggi?
R Come ho già detto, scegliere la via del giornalismo alla fine degli anni ’60 era una cosa molto difficile per una ragazza. Dopo aver lavorato alcuni anni nella redazione di un quotidiano, ho sposato uno scienziato aerospaziale e agli inizi degli anni ’70 mi sono trasferita a Trivandrum, la città più meridionale dell’India. Anche quella era una società molto tradizionale e non esistevano donne giornaliste. Ho dovuto ripartire da zero. Questa volta non potevo nemmeno ottenere un lavoro, così ho cominciato a fare la freelance. Mi ci vollero due anni per crearmi una reputazione come scrittrice ma, quando questo accadde, cominciai a ricevere ottimi incarichi dalle migliori testate del paese. Scrivevo articoli su qualunque soggetto mi capitasse e penso che questo sia stato un grande vantaggio. Curavo delle rubriche di argomento sociale, intervistavo esponenti politici, scrivevo articoli di nera, recensioni di film… tutto.
Sono sempre stata una femminista e la mia carriera giornalistica mi ha dato l’opportunità di consolidare le mie idee. Avevo la possibilità di inserire in ogni articolo da me scritto il punto di vista femminile. Cosa molto rara a quei tempi, dato che il giornalismo era un campo dominato dai maschi. Ben presto cominciai a tenere delle rubriche su argomenti di genere sui principali quotidiani e scrivevo anche per riviste femminili che pubblicavano articoli sull’autoaffermazione delle donne. Inoltre ho seguito importanti casi investigativi su crimini contro le donne.
Penso che oggi, per una donna, sia assai più facile accedere alla carriera giornalistica. E in effetti credo che più del 50% dei giornalisti (soprattutto agli inizi della carriera) siano donne. In un certo modo però è anche più difficile, perché la concorrenza è maggiore. C’è stata un’esplosione dei media ed è diventato molto difficile far sentire la propria voce. La paga è migliore e la pressione maggiore.
Per quanto mi riguarda, non sono più attiva come giornalista. Scrivo solo articoli su commissione e mi concentro sui miei libri. Dunque mi godo la vita e la scrittura!
[1] Kolar Gold Fields (K.G.F.) è il nome della città mineraria nel distretto di Kolar, nello stato del Karnataka, a circa 30 km da Kolar e circa 100 km da Bangalore. La miniera è stata chiusa nel 2001 perché la quantità del metallo estratto andava ormai esaurendosi. (N.d.T.)
[2] Qui si intende una tipologia familiare in cui convivono sotto lo stesso tetto diversi nuclei familiari tutti facenti capo a un patriarca (padre con i figli maschi e le loro famiglie). (N.d.T.)
*********
Gita Aravamudan (Bangalore, 1947), è una delle più note giornaliste indipendenti indiane, una delle prime donne a scrivere sui più importanti quotidiani nazionali come l’Hindustan Times, l’Indian Express o The Hindu, India Today e molti altri, ma anche autrice di successo di narrativa e sconvolgenti libri-inchiesta per Harper Collins.
Giornalista da oltre 35 anni, è sposata con un ingegnere aerospaziale, vive a Bangalore, scrive in inglese e ha collaborato e ancora collabora con articoli di politica, critica letteraria, cinematografica e di temi sociali con i maggiori quotidiani nazionali in lingua inglese. Da oltre 20 anni è parte attiva del movimento femminista indiano e negli ultimi anni la sua attenzione si è concentrata in modo particolare sulla condizione femminile in India e sulle sue contraddizioni. I suoi libri-inchiesta sull’argomento hanno fatto scuola.
Nel 2007 ha pubblicato il libro-inchiesta Disappearing Daughters, the tragedy of female foeticide, immediatamente diventato un best seller, sconvolgente documento sul feticidio femminile, che reca la preziosa prefazione del Presidente della Repubblica indiana Abdul Kalam. Un libro che ha scoperchiato il vaso di Pandora e ha innescato una forte presa di coscienza, sia politica che sociale e dibattiti parlamentari su una piaga che sta sconvolgendo l’equilibro demografico indiano, aprendo scenari apocalittici per il futuro.
Nel 2010 ha pubblicato Unbound: indian women@work, il suo secondo libro-inchiesta sul rapporto che la nuova donna indiana ha con il lavoro e la società. E nel 2014 Baby Makers, the Story of Indian Surrogacy, un’accurata indagine con taglio narrativo sul fenomeno dilagante della maternità surrogata, il cosiddetto “utero in affitto”, per cui molte coppie di occidentali, sia etero che omosessuali vanno in India a cercare donne in stato di bisogno che partoriscano i loro figli per pochi soldi, con la complicità di agenzie, di medici e istituzioni locali corrotte. Le storie narrate sono a volte agghiaccianti.
L’India è un paese la cui economia è in costante crescita e l’evoluzione sociale ed economica velocissima. Proprio per questo, una delle categorie più deboli, la donna, si trova a vivere in un vortice spesso poco gestibile di contraddizioni e di confusione sui ruoli, nonostante in India vi siano donne di grande potere, sia in politica che nel mondo imprenditoriale che in quello della cultura. La donna indiana non vuole più essere moglie o figlia sottomessa, ma non sa ancora come conciliare la tradizione (moltissimi matrimoni sono ancora combinati, perfino nelle fasce sociali più istruite e abbienti) con le nuove esigenze della modernità.
In fondo l’India dei villaggi e quella delle megalopoli supertecnologizzate coesistono in un equilibrio instabile, ma non indolore. È questo il motivo per cui Aravamudan ha deciso di usare la propria grande esperienza, la professionalità giornalistica e la sua voce ormai molto autorevole in favore delle donne indiane e del difficilissimo passaggio socioeconomico che stanno attraversando.
Gita Aravamudan è però anche autrice di splendida narrativa. Con Harper Collins ha infatti pubblicato I due romanzi The Healing e Colour of Gold .
The Healing (2008) è la saga di una famiglia di Chennai (Madras) attraverso le generazioni, nel corso di settant’anni fino ad oggi, narrata in prima persona da Bharati, la figlia minore del patriarca Ramanujam che, proprio nel giorno del terribile disastro della caduta della moschea Babri Masjid ad Ayodhya, a causa di disordini fra hindu e musulmani, che portarono alla morte di duemila persone, è colpito da un infarto e viene ricoverato in ospedale. Ma la famiglia deve affrontare un altro tracollo, quello della trasformazione dell’antica residenza familiare in appartamenti individuali. Una prospettiva che sovvertirà le loro vite. Ma la sofferenza che il cambiamento richiede può essere trasformata, non permettendo al passato di distruggere il presente e il futuro. Attraverso appunto una guarigione profonda delle ferite. Lo healing del titolo.
In Colour of Gold (2013) la vicenda, che si trasforma poi in un vero e proprio giallo, si svolge nella città mineraria di Kolar Gold Fields, KGF, nel Karnataka, sede delle miniere d’oro considerate un tempo fra le più ricche del mondo.
E questo è anche il primo libro mai ambientato in una miniera d’oro in India. Nel romanzo, la ricerca di un uomo per le proprie radici fa emergere una serie di complesse relazioni. Una lettera misteriosa inviata da un centenario inglese. Un cadavere ritrovato lungo la ferrovia. Una città in cui si trovano delle miniere d’oro. La spedizione di un giornalista australiano alle miniere abbandonate di Kolar. Cosa unisce questi eventi? La ricerca della verità su quella morte misteriosa porta alla luce molti segreti. Ma è anche la storia di una città, fra il 1903 e il 2003, un tempo un paradiso e ora un fantasma del proprio passato. Kolar infatti era stata negli anni ’50 un luogo idilliaco, con villette circondate dal verde, parchi e giardini, in cui abitava un’agiata comunità ancora imbevuta delle tradizioni coloniali che i colonizzatori del Raj britannico avevano lasciato in eredità, tanto da aver ribattezzato il luogo Little England,Piccola Inghilterra.
Il romanzo narra i cambiamenti della città nel corso di un secolo attraverso le vite dei suoi abitanti: i funzionari britannici che vivevano come piccoli re, i funzionari indiani che ne prendono il posto dopo l’indipendenza e tentano di riportare in vita le tradizioni occidentali, mentre i poveri minatori locali che lottano per la sopravvivenza nelle miniere, rimangono servi sotto entrambi i padroni.
A tutto questo, si intrecciano il mistero dell’assassinio di un placido uomo angloindiano, Bertie Flanagan, ucciso subito dopo aver ricevuto la lettera di un centenario inglese, la storia d’amore fra la giovane indiana Arati e un uomo angloindiano e la passione di un funzionario inglese per l’indiana Ponni, che gli ha dato un figlio.
Interessantissime le descrizioni dell’estrazione del metallo nelle miniere, la loro atmosfera soffocante, di contro alle sfavillanti feste da ballo natalizie secondo le vecchie tradizioni inglesi.
È un viaggio nel tempo e nelle culture che si avvicendano nella città, ma è anche una mistery story in cui tutti i fili tessuti nella trama complessa del romanzo si raccolgono solo alla fine, in un colpo di scena degno del miglior giallo classico, che farà emergere un segreto antico di cento anni.
Francesca Diano
Surrogate motherhood is expanding all over the world. Debates
rage over how public policy should consider the signing
away of the parental rights of birth mothers in favor of a
'commissioning' couple or an individual.
In this book, Daniela Danna describes the situation in English-speaking
countries and worldwide, from California to Greece,
presenting the legal alternatives regulating (or not) these peculiar
exchanges.
Should surrogacy remain a private agreement? Should it be
treated as an enforceable contract? Are surrogate mothers
workers? What happens inside the countries that have chosen
different ways of handling this new and controversial
matter? And, the most important question of all: How can
we live in this era of new techno-medical possibilities and try
to stay human? Can we resist commodification in the field of
human relations concerning procreation?
Contract Children discusses the different ways available to obtain
a child through surrogate motherhood. It is fundamental
reading for anyone wanting to be involved in the surrogacy
process. It gives prospective surrogate mothers and infertile
couples the background information necessary for their own
informed decision. It is also an essential instrument for policy
makers and activists in the field of women's rights, social justice,
and children's rights.
The question of how to publicly deal with surrogate motherhood
touches upon our social vision of motherhood, ultimately
marking the position of women in contemporary society.
Intelligent, compelling and highly readable, Contract Children challenges us to rethink the meanings of motherhood, care and markets before making judgments about the ethics of surrogacy. This is a powerful and original contribution to debates on surrogate motherhood.
Julia O'Connell Davidson, Professor of Sociology, University of Nottingham.
In this book, Daniela Danna proposes thought provocking theses not only on surrogacy, but more generally on gender roles and reproduction in the framework of the contemporary technological and geopolitical lansdscape. Putting an emphaisis on the principal role of birth (surrogate) mothers Danna investigates a number of relevant issues: what is a family in cases of surrogacy? what is the role of fathers – whether they aremale or female – what is the best interest of the child? Is it possible to consider contracts of surrogacy?
Danna pulls the strings of thirty years of reflection on an issue that, from marginal and confined to a few exceptional cases, is spreading across the planet, equally involving its poorest and richest parts. Finally, an intelligent reading on surrogate motherhood, to absorb and utilize in ourvarious fields of action, from the academy in politics, to personal life.
Danna pulls the strings of thirty years of reflection on an issue that, from marginal and confined to a few exceptional cases, is spreading across the planet, equally involving its poorest and richest parts. Finally, an intelligent reading on surrogate motherhood, to absorb and utilize in ourvarious fields of action, from the academy in politics, to personal life.
Caterina Botti, docente di Bioetica, Dipartimento di Filosofia Sapienza - Università di Roma
Daniela Danna has given us a truly global look at what is called ‘surrogacy,’ and what she more accurately calls ‘contract children.’ She traces the practice of selling ‘gestational services’ or ‘renting wombs’ from its creation in the United States in the 1970’s to its growth as a global industry, showing us the varied legal and social meanings around the world of turning pregnancy into paid labor – and often very poorly paid labor indeed. What would it mean to value, as she argues we should value, pregnancy and motherhood as the basic social tie, the relationship within which all human life begins?
Barbara Katz Rothman, City University of New York
Leggere questo libro è come salire sul colmo di una montagna e guardare il paesaggio dall’alto. Tutti i particolari che compongono il difficile dibattito sulla maternità surrogata appaiono chiaramente nelle loro interrelazioni. La ricchezza delle fonti e una raffinata sensibilità sociologica accompagnano e supportano la narrazione. Ideale per chi desidera approcciarsi per la prima volta al tema, sarà per i più esperti l’occasione di sperimentare nuovi punti di vista.
La maternità come oggetto di potere, di stigma o di dipendenza, il ruolo riproduttivo della donna durante il suo ciclo di vita e le implicazioni sul lavoro retribuito, il concetto di famiglia e le sue relazioni con il capitale, il rapporto tra natura, tecnologia ed evoluzione biologica, tra individuo e soggetto sociale, l’importanza del simbolico nella definizione culturale dei modelli, la responsabilità individuale e collettiva sui temi della maternità e della riproduzione sono solo alcuni degli ambiti di riflessione che potranno trovare stimoli innovativi dalla lettura del libro.
Maternità surrogata, un dibattito fallato e strumentale
Giuseppina La Delfa
Pubblicato: Aggiornato:
Ho conosciuto Nancy ben 7 anni fa, era piena estate ed era venuta da noi per un week end da Roma dove era ospite di una coppia di padri gay, miei amici, che crescevano già Lia, la loro primogenita partorita 2 anni prima proprio da Nancy. Nancy è una donna americana che vive a Sacramento in California, è al suo terzo matrimonio ed ha avuto ben 4 figli e, dai figli, anche i primi nipoti. Nancy è un'infermiera altamente qualificata, lavora in ospedale e ha una grande casa dove figli nipoti padri mariti e amici vanno e vengono. Quando l'ho conosciuta era incinta del secondo figlio dei miei amici ed era il suo primo viaggio in Italia. Non parlava italiano ed io parlucchiavo inglese.
Io avevo già partorito mia figlia Lisa dopo tre anni di tentativi e sofferenze varie e malgrado l'esperienza dolorosa di una gravidanza difficile da ottenere non avevamo perso la speranza di avere un altro figlio. Per noi, madri e aspiranti madri lesbiche, che desideravamo cosi tanto avere figli, l'idea che altre facessero con facilità e a pagamento figli per altri poteva essere difficile da capire. All'epoca, il dibattito francese era già in atto ed io, avendole sentite già raccontare la propria storia sui media, accoglievo tranquillamente l'idea che delle donne potessero portare in grembo figli per altri, ma l'incontro fisico con Nancy fu determinante per togliermi anche il minimo dubbio.
Nancy è una donna incredibile anche fisicamente: è alta e forte, ha una foresta di capelli rossi in testa (che per un periodo aveva del tutto rasato come partecipazione di sostegno alla prevenzione del cancro al seno), ha tante lentiggini sul viso, uno sguardo trasparente come l'acqua e dei tatuaggi ovunque. È il contrario stesso dell'idea della sottomissione, della debolezza, dell'indecisione, è una donna davvero imponente nel suo modo di affrontare lo spazio e il mondo. Tra l'altro è l'unica persona che mi ha detto che la doccia di casa era piccola e ci credo, ha una stazza impressionante sebbene non sia per nulla obesa!
Abbiamo parlato tanto in quei 2 giorni. Per rilassare i suoi reni doloranti per la gravidanza, stava ore seduta in fondo alla piscina che avevo montato in giardino per mia figlia e nell'acqua mi parlava dei suoi due figli più piccoli rimasti in California e era dispiaciuta di non averli potuti portare a visitare l'Italia. Il suo sguardo interno e emotivo era tutto rivolto ai suoi figli lontani anche se era presente e giocava e si preoccupava della bimba da lei partorita ma era evidente che quella bimba non era assolutamente sua figlia e era ben felice di vedere i due papà occuparsi attentamente della loro figlia. Sembrava dire: "Io ho fatto il mio, adesso sono felice che tocchi a voi perché io ho ancora da fare con i miei briganti in America".
Nancy è tornata a casa mia 4 anni dopo. Aveva dato alla luce Andrea, il secondogenito di Tommaso e Franco (e sarebbe stato l'ultimo bimbo da lei partorito), era tornata per un altro giro italiano di due settimane e da Roma era venuta da noi con due suoi amici. L'abbiamo portata in Costiera amalfitana ed era meravigliata da tanta bellezza e tanto pittoresco.
Siamo amiche su Facebook, conosco un po' le sue vicende famigliari, non sempre semplici con una famiglia cosi grande; i miei amici e i loro due figli vanno a trovarla in America quando possono e ogni volta tornano felici, i bambini la vedono con molto piacere e sanno di avere questo legame speciale con lei e tutta la sua famiglia.
A Nancy è stata conferita la tessera di Socia onoraria di Famiglie arcobaleno: è stata la prima delle madri surrogate dell'associazione a venire con grande gioia a un'assemblea di FA. Ha parlato con i maschi aspiranti papà e soprattutto con le mamme e future madri lesbiche di FA, perché molte di loro, anni fa, non sapevano e non capivano ma loro non hanno condannato, hanno voluto capire e conoscere, toccare con mano, toccare i corpi e incrociare gli sguardi, abbracciare questi corpi cosi potenti e forti di donne che ospitano la vita e permettono di creare famiglie felici e grate.
L'anno prossimo andrò in California con i mie due figli e mia moglie, Nancy ci ha già invitati e ci aspetta e sono felice di incontrare finalmente la sua famiglia numerosa.
Io avevo già partorito mia figlia Lisa dopo tre anni di tentativi e sofferenze varie e malgrado l'esperienza dolorosa di una gravidanza difficile da ottenere non avevamo perso la speranza di avere un altro figlio. Per noi, madri e aspiranti madri lesbiche, che desideravamo cosi tanto avere figli, l'idea che altre facessero con facilità e a pagamento figli per altri poteva essere difficile da capire. All'epoca, il dibattito francese era già in atto ed io, avendole sentite già raccontare la propria storia sui media, accoglievo tranquillamente l'idea che delle donne potessero portare in grembo figli per altri, ma l'incontro fisico con Nancy fu determinante per togliermi anche il minimo dubbio.
Nancy è una donna incredibile anche fisicamente: è alta e forte, ha una foresta di capelli rossi in testa (che per un periodo aveva del tutto rasato come partecipazione di sostegno alla prevenzione del cancro al seno), ha tante lentiggini sul viso, uno sguardo trasparente come l'acqua e dei tatuaggi ovunque. È il contrario stesso dell'idea della sottomissione, della debolezza, dell'indecisione, è una donna davvero imponente nel suo modo di affrontare lo spazio e il mondo. Tra l'altro è l'unica persona che mi ha detto che la doccia di casa era piccola e ci credo, ha una stazza impressionante sebbene non sia per nulla obesa!
Abbiamo parlato tanto in quei 2 giorni. Per rilassare i suoi reni doloranti per la gravidanza, stava ore seduta in fondo alla piscina che avevo montato in giardino per mia figlia e nell'acqua mi parlava dei suoi due figli più piccoli rimasti in California e era dispiaciuta di non averli potuti portare a visitare l'Italia. Il suo sguardo interno e emotivo era tutto rivolto ai suoi figli lontani anche se era presente e giocava e si preoccupava della bimba da lei partorita ma era evidente che quella bimba non era assolutamente sua figlia e era ben felice di vedere i due papà occuparsi attentamente della loro figlia. Sembrava dire: "Io ho fatto il mio, adesso sono felice che tocchi a voi perché io ho ancora da fare con i miei briganti in America".
Nancy è tornata a casa mia 4 anni dopo. Aveva dato alla luce Andrea, il secondogenito di Tommaso e Franco (e sarebbe stato l'ultimo bimbo da lei partorito), era tornata per un altro giro italiano di due settimane e da Roma era venuta da noi con due suoi amici. L'abbiamo portata in Costiera amalfitana ed era meravigliata da tanta bellezza e tanto pittoresco.
Siamo amiche su Facebook, conosco un po' le sue vicende famigliari, non sempre semplici con una famiglia cosi grande; i miei amici e i loro due figli vanno a trovarla in America quando possono e ogni volta tornano felici, i bambini la vedono con molto piacere e sanno di avere questo legame speciale con lei e tutta la sua famiglia.
A Nancy è stata conferita la tessera di Socia onoraria di Famiglie arcobaleno: è stata la prima delle madri surrogate dell'associazione a venire con grande gioia a un'assemblea di FA. Ha parlato con i maschi aspiranti papà e soprattutto con le mamme e future madri lesbiche di FA, perché molte di loro, anni fa, non sapevano e non capivano ma loro non hanno condannato, hanno voluto capire e conoscere, toccare con mano, toccare i corpi e incrociare gli sguardi, abbracciare questi corpi cosi potenti e forti di donne che ospitano la vita e permettono di creare famiglie felici e grate.
L'anno prossimo andrò in California con i mie due figli e mia moglie, Nancy ci ha già invitati e ci aspetta e sono felice di incontrare finalmente la sua famiglia numerosa.
Come lei sono decine le donne che hanno messo al mondo figli per padri gay single o in coppia di Famiglie Arcobaleno, l'hanno fatto con grande consapevolezza, con forza e coraggio, l'hanno fatto per convinzione e perché lo desideravano, l'hanno fatto insieme alle loro famiglie, ai loro mariti o compagni, insieme ai loro figli. Sono orgogliose e fiere per ciò che hanno realizzato. Certo, hanno ricevuto un compenso per questo, pari a circa 20.000 euro. Hanno potuto offrirsi un regalo o fare un'esperienza nuova grazie a quei soldi, o magari cambiare l'auto o mandare il figlio all'estero per un anno. A me non importa. Non toglie nulla alla bellezza e alla forza del loro gesto.
Se sapessero che in Italia qualche "femminista" arrogante e superficiale lavora per proibire universalmente (anche a casa d'altri) la possibilità di essere surrogate, si farebbero una sonora risata. Già sento Nancy e le sue amiche americane e canadesi ridere fin da qui.
Il dibattito sulla maternità surrogata è importante e va fatto. Ma usare una questione che riguarda tutti quanti per impedire che dei genitori possano proteggere i propri figli e assumersi le proprie responsabilità, è semplicemente disgustoso. Ed è purtroppo quello che sta succedendo: per impedire che venga votato l'articolo 5 del ddl Cirinnàsulla stepchild adoption (una norma comunque discriminante e insufficiente) si butta fango e si scrivono stupidaggini da mesi, stupidaggini e menzogne, si occultano i fatti e si inventano cifre, ci si focalizza sui genitori gay quando la Gpa (la gestazione per altri) esiste da 30 anni per le coppie eterosessuali che rimangono invisibili e vergognose, si mette l'accento sullo scambio di denaro dimenticando di dire che i centri italiani per la Procreazione medicalmente assistata sono costretti a comprare ovuli e spermatozoi dai centri spagnoli e danesi perché in Italia (notare la grande ipocrisia) il dono deve essere gratis senza nemmeno una compensazione per il tempo e il dolore fisico che le donatrici di ovuli subiscono. La gratuità è una grande menzogna: c'è un prezzo da pagare per qualsiasi cosa, e il denaro non è sporco specie se serve a dare gioia e felicità.
Già gli psicologi mettono in guardia di fronte a situazioni in cui madri mettono a disposizione il loro grembo per aiutare le figlie senza utero per amore della "bellezza del gesto". Fin dove si spinge il senso di colpa di una madre che magari ha messo al mondo una figlia senza utero? Portare una gravidanza a termine a sessanta anni e più non è proprio una passeggiata! Per non parlare degli altri dibattiti a venire o già in corso, come l'impianto di uteri in donne nate senza per esempio, o la ricerca sull'utero artificiale o ancora la possibilità di recuperare cellule idonee alla procreazione da qualsiasi cellula umana, permettendo cosi a coppie oggi sterili di avere dei figli con il patrimonio genetico di due o tre individui. Vediamo che il dibattito - universale - è solo all'inizio. E urlare al lupo e a vanvera non porta da nessuna parte se non a disastri enormi, ingiusti e ciechi.
Spero che le femministe e quelle "personalità della cultura" che stanno firmando un appello scorretto e menzognero siano felici di camminare mano nella mano con i noti omofobi nazionali. Spero che i genitori eterosessuali che hanno avuto i figli grazie alla Gpa si vergognino un po' di restare nell'ombra e lasciare che le valanghe di porcherie ricadano tutte su una minoranza maltrattata da secoli, che sta facendo un lavoro incredibile per dare visibilità e dignità a un nuovo modo di fare figli e di essere genitori che già oggi e sempre di più domani permetterà alle coppie di tutti i tipi, sempre più infertili, di diventare genitori.
Mi auguro infine che le donne indiane e ucraine e russe e altre ancora, che vivono in paesi di cui si sente parlare sempre tramite i discorsi di altri, possano presto esprimersi in massa sulle loro esperienze, che sicuramente sono diverse da quelle che riporto - ma non credo che sia tutto da buttare nemmeno li. Ad ogni modo i padri gay e i single non hanno accesso a questi paesi. Se esiste uno sfruttamento questo non riguarda oggi le persone omosessuali.
Volere impedire una pratica legale altrove (e che esiste dai tempi biblici) è pura fantasia strumentale e ideologica, desiderare una Gpa altruistica e senza scambi di denaro non solo è mostrare di vivere al di là del mondo reale, ma è anche un'opzione estremamente pericolosa: è solo dare l'opportunità ai delinquenti e criminali di ogni genere di schiavizzare davvero le donne e usare i loro grembi a fine di lucro. Che le femministe non lo capiscano mi è del tutto incomprensibile.
I reazionari hanno lavorato bene, è indubbio. L'obiettivo è quasi raggiunto se si discute di stralciare l'art. 5 del ddl Cirinnà sulla stepchild adoption, se non si torna a ragionare di nuovo col cervello e non con la pancia, avremo bimbi che rimarranno orfani di un genitore, ingiustizie e discriminazioni; e per finire l'assenza di ogni tipo di tutela per le coppie omosessuali e i loro figli, perché mi auguro che la comunità omosessuale a questo punto respingerà al mittente il suo disprezzo e la sua pochezza. Famiglie Arcobaleno non vuole una legge i cui i propri figli siano considerati indegni di tutele e di protezione.
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